Il comitato per gli investimenti esteri ha detto no alle mire di Pechino su un deposito di terre rare. È un altro segnale che le relazioni commerciali tra i due Paesi devono passare dal vaglio dell’interesse nazionale
Nel bel mezzo della transizione energetica e della corsa alle materie prime critiche, Australia e Cina si trovano in una condizione di contemporanea dipendenza e competizione commerciale, soprattutto nel settore delle commodity. L’Australia è infatti il principale esportatore di minerale di ferro verso la Cina, che alimenta le grandi industrie siderurgiche cinesi. Ma al contempo è diventata, nell’ultimo decennio, il primo produttore di litio da spodumene roccioso, che viene spedito nei porti di Shanghai (circa il 90% dell’output minerario australiano) per essere trasformato in idrossido di litio – materiale precursore, insieme al carbonato, per la produzione di catodi per le batterie.
La naturale convergenza tra i due Paesi nel settore delle materie prime per la forte integrazione tra fasi upstream e di raffinazione dell’oro bianco non rende tuttavia le relazioni tra i due governi scevre da tensioni geopolitiche, legate soprattutto all’allineamento di Camberra all’asse euro-americano. Infatti, tra i vari dossier che hanno alimentato queste turbolenze vi è la crescente penetrazione degli investitori cinesi nell’industria mineraria australiana.
Talvolta, si è trattato di joint venture come quella che lega la sussidiaria di Tianqi Lithium, Talison, nelle operazioni della più grande miniera di litio in Australia, il deposito di Greenbushes. O di investimenti equity come quello di CATL nel deposito di Pilgangoora, operato dall’azienda Pilbara Minerals. In altre occasioni e mercati, come quello del nickel, l’investimento si faceva più considerevole, con la prospettiva di un totale controllo sulle operazioni come nel caso più recente Nickel Industries e Shanghai Decent che, con il via libera delle autorità australiane, ha di fatto spalancato le porte alla nuova proprietà cinese.
Ma quando si tratta di litio e di prendere il controllo di asset strategici, la scure dell’interesse nazionale cala. E’ successo qualche mese fa per un deposito di terre rare, mentre ora è la volta di Alita Resources.
Il Foreign Investment Review Board (FIRB), autorità sotto il controllo del Dipartimento del Tesoro, ha il potere di intervenire sulle transazioni qualora esse pregiudichino l’interesse nazionale, la competizione di mercato, l’impatto sulle politiche del governo australiano (come le entrate o l’ambiente), sull’economia e la comunità valutando il carattere dell’investitore. Nel caso degli asset minerari, è richiesto alle “entità straniere” di richiedere una licenza prima di poter acquisire interessi in un asset, a prescindere dal suo valore.
Alita Resources Ltd è una compagnia mineraria che estrate tantalio e litio, rispettivamente nei siti di Minethe e Bald Hill, con sede a Perth. L’azienda è arrivata alla produzione di concentrati di litio, ma con grandi difficoltà finanziarie (nel 2017 e nel 2018 ha registrato un saldo commerciale in negativo). Seppur il segretario al Tesoro Jim Chalmers non abbia lasciato dichiarazioni che facciano intendere che la clausola di sicurezza nazionale sia stata esercitata, i poteri del FIRB sono stati attivati dal momento che l’entità in oggetto, Austroid Corporation, avrebbe acquisito il 100% delle azioni di Alita (in aggiunta alle circa 10 già possedute) secondo quanto pubblicato dal Federal Register of Legislation nella giornata di giovedì.
Ma cosa ha spinto il FIRB ad intervenire? Nel 2019, in seguito al crollo dei prezzi del litio, Alita è andata in crisi di liquidità con la conseguente chiusura della miniera di Bald Hill, nella regione di Goldfields nell’Est del Paese. Un’azienda cinese, Liatam Mining, ha provato a rilevare l’azienda comprando i suoi asset nel 2020 ma senza tuttavia ottenere l’approvazione del comitato sugli investimenti (nell’anno probabilmente più nefasto nelle relazioni diplomatiche tra i due Paesi).
Austroid Corporation è un’azienda con sede in Nevada, negli USA. Tuttavia, la sussidiaria australiana (Austroid Australia) convivide con Liatam lo stesso manager, nella figura di Mike Que, figlio di Que Wenbin, figura di spicco dell’industria mineraria cinese, che detiene una partecipazione importante nel produttore cinese di batterie al litio Sichuan Western Resource. Que sarebbe anche il direttore della filiale di Alita (Litcho) che gestisce la miniera di litio di Bald Hill. Secondo il quotidiano The Australian, nonostante l’aumento dei prezzi del litio sui mercati spot oltre i 6000 dollari statunitensi per tonnellata, Austroid avrebbe segretamente siglato contratti di fornitura dei concentrati di litio ben al di sotto dei prezzi di mercato, intorno ai 800-1500 dollari per tonnellata. Motivo che ha portato ad investigare sull’azienda e sui legami di Que.
La compartecipazione, dunque, avrebbe spinto il governo di Camberra a ricorrere al FIRB, preoccupato del controllo azionario totale in un deposito considerato importante per la strategia australiana nel settore delle materie prime critiche.
In un comunicato stampa, l’azienda Austroid si è detta “scioccata e delusa” dalla decisione di bloccare l’acquisizione che avrebbe convertito il debito dell’azienda in equity, soprattutto alla luce del fatto che aveva investito significative risorse finanziarie per consentire ad Alita di riprendere le operazioni nel 2022.
In un discorso lo scorso novembre 2022, il segretario Chalmers aveva infatti avvertito che il governo sarebbe stato più stringente nella selezione degli investimenti diretti esteri. Si tratta del secondo blocco in meno di un anno. Misure drastiche che si inseriscono nel tentativo di stabilizzare comunque le relazioni tra Camberra e Pechino, nonostante il governo australiano ormai abbia dichiarato la volontà di favorire l’onshoring di impianti di raffinazione del litio sul suolo nazionale. In un report del Dipartimento del Tesoro ad inizio luglio, è emerso come gli investimenti cinesi in Australia siano crollati dall’inizio del 2023.
La Cina ha criticato duramente l’Australia per aver bloccato gli investimenti cinesi per motivi di sicurezza nazionale e la scorsa settimana, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri australiano Penny Wong, il diplomatico più importante della Cina ha dichiarato che l’Australia dovrebbe assicurare un “contesto commerciale non discriminatorio per le imprese cinesi che investono in Australia”.
Ma trattandosi di risorse critiche per i piani industriali dell’Australia e di molti altri Paesi ricchi di materie prime, è plausibile che misure di questo tipo – o comunque inquadrabili nel cosiddetto “nazionalismo delle risorse” – possano diventare sempre più comuni.