Berlino ha posizioni diverse riguardo alla Cina, divisioni all’interno della coalizione di governo emerse anche nella composizione del documento strategico presentato in questi giorni. Per Ohlberg (Gmf), il cancelliere Scholz da adesso dovrà evitare posizioni ambigue su Pechino per “non alienarsi da alleati e partner”
“La Cina è cambiata. Come risultato di questo e delle decisioni politiche della Cina, dobbiamo cambiare il nostro approccio alla Cina”. Inizia così il documento sulla strategia da usare con la Cina reso pubblico giovedì 13 luglio dal governo tedesco. Un testo che delinea le intenzione di Berlino, il più connesso dei Paesi europei con Pechino. La Germania pesa per circa il 20% dell’export dell’Ue, e l’economia orientata all’esportazione ha dato a Berlino spazio fiscale per avere molto peso in Europa, con la nuova strategia che è piena di riferimenti all’importanza del commercio. La China-strategy tedesca arriva dopo annunci e mesi di ritardi, con un’impronta degli interessi divisi della coalizione di governo e suggerisce che le divisioni continueranno a pesare sulla chiarezza.
I vari volti di Berlino
“Ci sono state alcune differenze significative e ben raccontate in questi mesi su come i vari ministeri tedeschi vogliano approcciare la politica per la Cina e ciò che vuole la Cancelleria”, sottolinea Mareike Ohlberg, senior fellow del Programma Asia al German Marshall Fund. “Questo è emerso nel dibattito sugli investimenti di Cosco, ad esempio, ma è rilevante in molti altri settori. In sostanza, questo renderà più difficile tradurre la strategia per la Cina pubblicata oggi in misure concrete, e farlo rapidamente”.
Per esempio, i Verdi della ministra degli Esteri Annalena Baerbock hanno una chiara posizione sugli Uiguri, la minoranza oggetto della campagna di rieducazione nello Xinjiang, o sulle violazioni a Hong Kong e nel Tibet, e in generale pressano su un invito alla Cina a rispettare i diritti umani. Secondo quanto uscito sui media, questo è stato un pomo della discordia per gli altri partner della coalizione, ma ora è stato incluso (presumibilmente su insistenza dei Verdi).
La Sdp invece pone l’accento sulle “imprese […] che tengano sufficientemente conto dei rischi geopolitici nel processo decisionale”, piuttosto che sul governo che applichi misure per veicolare certe decisioni, e si allinea chiaramente all’approccio del cancelliere Scholz – il quale intende spostare l’onere dal governo alle imprese, al fine di ridurre i rischi di tensioni bilaterali (posizione che ha ricevuto dissensi). I liberali di Fdp, proprio all’inizio del documento, hanno insistito per sottolineare che la strategia sarà attuata “senza costi aggiuntivi per il bilancio federale complessivo”, in linea con l’approccio fiscale rigoroso del ministro delle Finanze Christian Lindner.
Il problema di quanto sopra risiede nelle contraddizioni. Sarà difficile fare la differenza sul fronte dei diritti umani, con un approccio bottom-up/firm-first. Allo stesso modo, sarà difficile diversificarsi dagli alti livelli di dipendenza dai minerali e dalle tecnologie verdi senza alcun aumento della spesa pubblica, dato il dominio cinese sui mercati chiave e i mezzi di produzione più economici.
De-risking vago
Il documento è (inevitabilmente) cauto e segna più un primo approccio più che una strategia completa e duratura, il che suggerisce un ampio margine di adattamento in base all’evoluzione degli eventi. Vengono proposti molteplici “dialoghi” e si fa ripetuto riferimento all’operare “nel quadro dell’Ue” per stemperare le tensioni future. Berlino abbina le sue necessità di diminuire le dipendenze dalla Cina in settori critici con la costruzione di una più coerente policy europea (a cui la strategia tedesca dovrebbe contribuire). Molto ruota attorno al concetto di “de-risking”, e nelle sue interpretazioni. “Il problema principale del termine de-risking – continua Ohlberg – è che non esiste una definizione condivisa da tutte le persone che lo utilizzano, per cui si usa per significare cose diverse. Nel caso di Scholz, il cancelliera sembra preferire una definizione più ristretta a livello nazionale, che si concentra sul rendere la Germania più resistente in termini di approvvigionamento di materie prime senza toccare direttamente troppi altri settori”.
Il documento è costruito con un linguaggio esplorativo. Il governo “valuterà continuamente” (anche attraverso discussioni in corso con le imprese) l’uso del credito all’esportazione statale per la tecnologia a doppio uso; e “potrebbe” proibire l’acquisizione di aziende nazionali in caso di chiara compromissione della sicurezza pubblica (ma senza ulteriori chiarimenti/specifiche). Le misure sugli investimenti in uscita inoltre “potrebbero” essere importanti: è previsto un aggiornamento della legislazione sullo screening degli investimenti, vengono usati termini simili all’Economic Security Strategy dell’Ue e al comunicato finale del G7. Tutto ciò suggerisce che c’è ancora da discutere e questa strategia si limita a inquadrare il dibattito.
Direzione di marcia
La Germania in sostanza ha delineato una direzione di marcia, un graduale aumento dell’uso di strumenti per monitoraggio/screening/limitazione (se serve) di determinati investimenti. La strategia tedesca riconosce che (anche se non è una novità) esistono soglie di rischio per impedire gli investimenti esteri in determinati settori. Evidenziare quali settori necessitano di una particolare supervisione fornirà probabilmente la base per le pressioni dei membri più falchi della coalizione su futuri contratti o acquisizioni da parte di aziende cinesi (ad esempio, Huawei). E ora che questa strategia è stata formalizzata, sarà più difficile per Scholz annullare certe pressioni. Anche perché nel testo è messo nero su bianco che la Cina sta perseguendo la fusione militare-civile, offuscando così i confini tra applicazioni militari e non militari di alcuni articoli. Ciò influisce direttamente sull’approccio tedesco ai controlli sulle esportazioni.
Per Ohlberg, Scholz ha ragione nel dire che il governo tedesco non può limitarsi a prendere decisioni per le imprese, ma può stabilire incentivi e creare leggi e regolamenti che contribuiscano a rendere l’economia tedesca meno dipendente dalla Cina. “Rispetto a Ursula von der Leyen e all’amministrazione Biden, l’approccio di Scholz sembra molto più vicino a qualcosa che continua il business as usual con la Cina nella sostanza, se non nel nome, nella maggior parte delle relazioni economiche. Bisognerebbe chiedere a Olaf Scholz stesso perché pensa che questa sia una buona idea quando la Repubblica popolare cinese ha reso chiare le sue intenzioni di armare le dipendenze economiche”.
Detto questo, tale approccio non è certamente rappresentativo dell’intera coalizione di governo tedesca, come detto, e dunque delinea una visione in costruzione di Berlino. “Ci sono stati sviluppi positivi nella politica tedesca sulla Cina e credo che sarà sempre più difficile per la Germania avere comportamenti ambigui quando si tratterà di continuare a fare affari con la Cina senza alienarsi alleati e partner”, chiosa l’esperta del Gmf.