“Sul piano internazionale la premier sta dando il meglio di sé, anche nel presentare dinanzi all’Ue il ventaglio dei singoli problemi. Oggi la politica perseguita dal governo è quella di provare a fare un ragionamento con i Paesi del Nord Africa che metta insieme la sicurezza dell’Europa, i flussi regolati e lo sviluppo, tre elementi che si tengono insieme e diventano quindi un progetto politico di grande qualità”. Intervista con l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino
Giorgia Meloni vorrà dire a Joe Biden che non c’è soltanto l’Indo Pacifico come tema di fondo, ma c’è anche il Mediterraneo che va a sollecitare un’attenzione degli americani nei riguardi dell’Africa. Ne è convinto l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, che nelle ore che precedono il vertice alla Casa Bianca, affida a Formiche.net un ampio ragionamento sul perimetro della visita, sulle aspettative italiane e statunitensi, nella consapevolezza che “sul piano internazionale la premier sta dando il meglio di sé, anche nel presentare dinanzi all’Ue il ventaglio dei singoli problemi”.
Per la prima volta nella storia d’Italia una premier donna, di destra, è ricevuta alla Casa Bianca: cosa aspettarsi da questo incontro anche in relazione al prossimo G7 di cui l’Italia avrà la presidenza?
Il dato della prima volta di una donna alla guida del governo ha rappresentato una novità ben digerita dal Paese e la premier in questa fase sta facendo di tutto, in particolare sul piano internazionale, per accreditarsi. Probabilmente in questa stagione le donne hanno una marcia in più. Vi è quindi, da questo punto di vista, nulla da obiettare.
Quali gli obiettivi?
Consolidare il rapporto atlantico, un rapporto talmente forte che quasi tutti i Paesi vorrebbero stare nella Nato. Certamente i Paesi della vecchia cortina di ferro, che avendo vissuto il tallone del popolo russo nelle sue versioni politiche zariste e staliniane, non vogliono altro che essere uomini e donne libere in un paese e in una comunità internazionale che è sostanzialmente la culla delle libertà democratiche. Questo è quello che ci aspetta e probabilmente la Meloni vorrà dire a Biden che non c’è soltanto l’Indo pacifico come tema di fondo, ma c’è anche il Mediterraneo che va a sollecitare un’attenzione degli americani nei riguardi dell’Africa.
Dopo la sbandata verso Pechino del governo Conte, l’Italia ha ritrovato il suo filo atlantico con il Governo Meloni: in che modo ciò potrà dare aria alle politiche italiane nel Mediterraneo e in seno alla Nato?
In maniera notevole tenendo presente che, peraltro, l’atlantismo di oggi e il ruolo della Nato non sono solo un elemento di difesa ma anche un elemento di ricerca scientifica e di nuove sicurezze cibernetiche rispetto agli attacchi degli hacker. Ciò accade in una stagione nella quale le democrazie occidentali incominciano ad avere una frattura sociale grazie a quello che è accaduto in questi ultimi 30 anni: mi riferisco all’egemonia della finanza e all’alimentazione delle grandi disuguaglianze, per cui abbiamo avuto una mutazione genetica della finanza, da infrastruttura al servizio della produzione di beni a industria a sé stante. Questo ha determinato naturalmente l’affanno della produzione di beni e servizi, che sono il benessere delle popolazioni. Di qui, poi, la grande disuguaglianza. L’uso finanziario del capitale ha alimentato grandi ricchezze elitarie, ma anche povertà di massa. C’è una rabbia di base, come dimostrano le proteste in Francia, un Paese che come al solito anticipa le questioni continentali. Andare in pensione due anni più tardi non è la fine del mondo, eppure il terzo millennio è segnato da una rabbia popolare che esplode.
Come si inserisce in questo contesto l’alleanza atlantica?
Il rapporto atlantico deve essere omnicomprensivo, per assicurare sicurezza da un lato ma anche benessere nelle popolazioni, perché poi molte scoperte nel settore spaziale, delle armi e della digitalizzazione si riversano positivamente anche sulla organizzazione civile e quindi sulle opportunità che lasciano presagire un rilancio della produttività. Ma a condizione che non si preferisca l’uso finanziario del capitale e si favorisca invece il suo uso produttivo.
Il premier arriva a Washington con i dati del Fmi, che danno l’Italia avanti a Germania e Francia quanto alla crescita. Un vantaggio?
Questo non è un vantaggio, perché se andiamo a vedere il quadriennio dal 2020 al 2023 è pur vero che siamo cresciuti, dopo la pandemia, più che nei vent’anni precedenti, quando la media di crescita del Paese era dello 0,8% all’anno. Ma è una ripresa un po’ drogata, dal momento che abbiamo inserito nell’economia reale circa 300 miliardi di ristori. Questa crescita lascia intravedere una debolezza della nostra manifattura non soltanto come quantità ma anche come qualità.
Il caso tunisino e il metodo utilizzato da Giorgia Meloni è ciò che gli Usa si aspettano quando chiedono all’Ue più incisività nei problemi mediterranei?
Indubbiamente. Sul piano internazionale la premier sta dando il meglio di sé, ne cura personalmente i risultati che cominciano a essere visti anche come iniziative concrete. Sul piano interno ho qualche dubbio, invece. Direi che esiste l’esigenza di fare avvertire ai 27 Paesi dell’Unione Europea, quelli dell’Eurozona, il profilo dei problemi che non devono essere caricati sulle spalle solo dei Paesi che si affacciano nel Mediterraneo. Questo risultato negli anni passati non si era mai visto. Oggi la politica perseguita dal Governo è quella di provare a fare un ragionamento con i Paesi del Nord Africa che metta insieme la sicurezza dell’Europa, i flussi regolati e lo sviluppo. Ovvero tre elementi che si tengono insieme e diventano quindi un progetto politico di grande qualità. La presenza a Roma nei giorni scorsi di tanti leaders africani dimostra che sono interessatissimi a questo tipo di ragionamento e disponibili a fare la loro parte nel contenimento dei traffici illegali.
@FDepalo