Ci sono decisioni prese da Washington e da Pechino riguardo a limitazioni economico-commerciali reciproche su cui difficilmente si potrà tornare indietro, perché sono state mosse da quella che viene considerata sicurezza nazionale. I contatti, come quella della segretaria Yellen, potranno continuare in un clima teso
C’è chi a Washington guarda con scetticismo questa fase di “disgelo” tra Stati Uniti e Cina, sottolineando come gli incontri di alto livello — come quelli che la segreteria al Tesoro Janet Yellen avrà a Pechino nei prossimi giorni — non solo non hanno prodotto risultati tangibili, ma tendono a coincidere con picchi di azioni coercitive o provocatorie da entrambe le parti.
Ci sono vari precedenti. Tre giorni prima che la segretaria al Commercio Gina Raimondo (che potrebbe essere la prossima senior dell’amministrazione Biden ad andare in Cina) incontrasse il suo omologo cinese Wang Wentao, Pechino decise di sanzionare la Micron, vietando l’importazione di prodotti realizzati dall’azienda americana di chip. Era fine maggio. Due giorni dopo il rientro del segretario di Stato Antony Blinken da una visita in Cina, il presidente Joe Biden si lasciò sfuggire (o forse fu pianificato) la definizione di “dittatore” contro il leader cinese Xi Jinping. Era il 21 giugno. All’inizio di quel mese, mentre il Pentagono lavorava (senza successo) per far incontrare il segretario alla Difesa Lloyd Austin con l’omologo Li Shangfu nell’ambito dello Shangri-La Dialogue di Singapore, una nave cinese tagliò la rotta a un cacciatorpediniere americano tra le acque infuocate dello Stretto di Taiwan — una manovra provocatoria di pericolosità storica.
Adesso, mentre Yellen prepara la partenza per la missione cinese, il dipartimento di Stato emette un warning sui rischi di visitare la Cina per i cittadini americani (frutto anche delle nuove, severissime misure introdotte dalla rinnovata legge anti-spionaggio). Pechino risponde indirettamente con il blocco delle esportazioni (anche negli Usa) di gallio e germanio, materiali critici fondamentali per la produzione dei chip. E qualcos’altro potrebbe muoversi a breve, fanno notare le fonti più informate alludendo a ulteriori misure sui semiconduttori e nuove decisioni del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti.
Molte delle mosse intraprese da Washington e da Pechino sono diventate quasi insindacabili. I colloqui in corso possono contribuire a costruire un clima meno aggressivo tra i due grandi poli degli affari globali, ma difficilmente da alcune scelte si potrà tornare indietro. Sono non negoziabili, da entrambi i lati. In parole povere: mentre persino i più accaniti tra i falchi statunitensi della Cina sotto l’amministrazione Trump avrebbero sostenuto che i dazi commerciali imposti sui prodotti cinesi potevano essere revocati se/quando Pechino avesse modificato il suo modello di sovvenzioni interne, è quasi inconcepibile adesso che l’amministrazione Biden accetti di rimuovere i controlli sulle esportazioni imposti agli acquirenti cinesi di semiconduttori in nome della “sicurezza nazionale”.
È evidente ci si trovi davanti a un cambiamento qualitativo nelle dinamiche e nei termini di contrattazione tra Stati Uniti e Cina che renderà strutturalmente più difficili i progressi verso la de-escalation. Pechino è consapevole della situazione perché ha anch’essa alzato il livello dell’ingaggio, iniziando a prendere decisioni più dure rispetto al passato. Il Partito/Stato è da tempo pienamente consapevole che un uso eccessivo o prematuro di certe restrizioni non farebbe altro che incoraggiare i suoi avversari nei loro sforzi per ridurre esposizione e dipendenza dalla Cina. Il cambiamento significa che la pazienza cinese si sta esaurendo, raggiunta un’ulteriore consapevolezza: non ci sarà un de-coupling (tecnicamente quasi impossibile), ma il de-risking comporterà un sensibile disaccoppiamento dalla Cina da parte dell’America e di diversi Paesi like-minded. I contatti continueranno, ma il clima sembra restare teso.