L’agenzia di rating che ai primi di agosto ha tolto la tripla A alla prima economia globale, potrebbe valutare dei downgrade tra gli istituti più grandi. Ribadendo che il sistema del credito statunitense non ha ancora digerito del tutto la sterzata monetaria. Ora occhi al forum di fine agosto
Non sarà facile per il sistema bancario americano assorbire per intero l’urto della nuova politica monetaria, inaugurata dalla Federal Reserve, nel marzo dello scorso anno. Eppure bisogna tentare, per evitare di franare. Il collasso della Silicon Valley Bank, sei mesi fa, è lì a ricordarlo. E anche Moody’s, che solo pochi giorni fa ha declassato sei istituti di media taglia. Quelli più strategici per le economie di territorio. Non è certo un caso se nei primi mesi dell’anno le banche statunitensi abbiano scontato svalutazioni sui prestiti per quasi 20 miliardi: il denaro costa di più, è più difficile rimborsarlo e allora il credito va in sofferenza. Il resto è noto.
Ora si è accesa una nuova sirena. Quella di Fitch, risuonata per avvertire che il settore bancario statunitense sta navigando in acque tumultuose. Certo, lo scorso 2 agosto, con una mossa a sorpresa l’agenzia di rating ha deciso di tagliare a AA+ (con outlook stabile) il rating sugli Stati Uniti, togliendo così alla più grande economia mondiale il valore massimo di AAA, suscitando le ire di Janet Yellen, Segretario al Tesoro e garante delle finanze americane. Ma ciò non toglie che, oltre alle sfide già in atto, come tassi di interesse elevati e una redditività in diminuzione, ora emerge un’altra minaccia che getta ulteriori ombre sulle istituzioni finanziarie: il declassamento del rating delle obbligazioni. Per questo l’agenzia è pronta a decine di downgrade. E stavolta la stazza delle banche potrebbe essere decisamente più grossa di Moody’s.
Il sistema bancario, d’altronde, si affida alla vendita di obbligazioni per finanziare le loro operazioni. Questa pratica ha svolto un ruolo cruciale nel sostenere le attività bancarie, ma ora si staglia l’ombra di una possibile complicazione: il costo crescente delle emissioni obbligazionarie, proprio sull’onda dell’aumento dei tassi voluto dalla Fed. Le agenzie di rating stanno lanciando segnali chiari, sottolineando che le emissioni di obbligazioni potrebbero divenire più onerose a causa di una serie di pressioni, tra cui quelle riconducibili al nuovo corso della politica monetaria.
La quale vive in una sorta di limbo. Sì, perché se è vero che a giugno il governatore Jerome Powell ha lasciato i tassi fermi al 5,2%, prendendosi la prima pausa di riflessione in 14 mesi, non è assolutamente detto che il tempo dei rialzi sia finito. Anzi. “Con l’inflazione ancora ben al di sopra dell’obiettivo di lungo periodo del Comitato e il mercato del lavoro che rimane teso, la maggior parte dei partecipanti ha continuato a vedere significativi rischi al rialzo per l’inflazione, che potrebbe richiedere un ulteriore inasprimento della politica monetaria”, ha scritto la Federal Reserve nei verbali della riunione di luglio, che ha ritoccato leggermente i tassi. Ora gli occhi sono tutti per il forum di Jackson Hole, a fine agosto. E ci sarà anche Christine Lagarde.