Italia e Cina “ribadiscono la volontà di sostenere un sistema di investimenti libero e aperto” e si impegnano “alla messa in opera di un level playing field”, si legge. Impegni non soddisfatti. Ora serve trarne le conseguenze
Il memorandum per la Via della Seta che il governo gialloverde (Conte I) ha firmato nel 2019 spiega che Italia e Cina “ribadiscono la volontà di sostenere un sistema di investimenti libero e aperto” e si impegnano “alla messa in opera di un level playing field”. Ma sono stati rispettati questi impegni? A quasi cinque anni di distanza, questa è la domanda a cui l’Italia deve rispondere prima di decidere se rinnovare o meno il memorandum sulla Via della Seta.
A tal proposto, la Cina non ha fatto alcun concreto passo in avanti. Semmai, un passo indietro con l’aggiornata legge sullo spionaggio entrata in vigore il primo luglio scorso. Da molti anni le imprese cinesi possono muoversi liberamente in termini di acquisizioni di aziende italiane (con l’ovvia eccezione dalle operazioni di M&A per l’industria della difesa) seguendo i principi di un’economia internazionale aperta.
Le imprese italiane, invece, non possono muoversi con analoga libertà in Cina. Gli investimenti stranieri nel Dragone continuano, infatti, a essere limitati a joint venture in cui la componente straniera deve essere minoritaria e che sono iper-regolate e condizionate dalla politica. Ciò non significa che le imprese italiane non abbiano guadagnato, ma la loro posizione resta subalterna e con scarsi margini di manovra, tanto che persino acquistare un appartamento è quasi una missione impossibile. E questo mentre attività commerciali e interi pezzi delle nostre città vengono acquistati dalle comunità cinesi. Per non parlare della pervasiva penetrazione digitale del Dragone.
Questa perdurante asimmetria relativa al mercato dei capitali conferma che le promesse contenute nel memorandum (investimenti liberi e aperti e level playing field) non sono state realizzate. In questo caso l’accusa di inaffidabilità non può essere imputata agli italiani.
Dall’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, la Cina ha più volte dichiarato la volontà di integrarsi nell’economia Internazionale. Ma, soprattutto dopo l’insediamento del presidente Xi Jinping, si è sempre fermata alle soglie del grande passo.
A questo proposito un caso emblematico è quello di Morgan Stanley (fortemente esposta con la Cina), che recentemente ha spostato la sua attenzione verso l’India. E ancora di più Jp Morgan, che, pur avendo ottenuto i permessi a investire con maggiore libertà in Cina, di fronte alla lentezza dei meccanismi e agli ostacoli pratici ora guarda al Giappone come area di maggiore interesse in Asia.
In questo contesto globale i negoziatori italiani dovrebbero spiegare ai loro interlocutori cinesi che l’intenzione di non rinnovare il memorandum sula Via della Seta deriva dall’impossibilità di metterlo in pratica. Qualora Pechino decidesse di realizzare un vero level playing field l’Italia non si tirerebbe certo indietro.
Non si può sottovalutare l’azzardo compiuto dal governo di Giuseppe Conte nel disallineare l’Italia dagli altri Paesi del G7. Ma per come sono andate le cose, la vera critica è che lo ha fatto senza che ne valesse la pena.
Nell’attuale difficile congiuntura all’economia cinese servirebbero consistenti investimenti stranieri, ma è improbabile che in pochi mesi si realizzi a Pechino la svolta che tutti gli operatori economici internazionali si aspettano da anni. Vedremo. L’importante è che in materia di memorandum la diplomazia italiana chiarisca nel merito ciò che non ha funzionato.
L’Italia, come hanno già fatto altri Paesi europei, è pronta a cooperare sul piano bilaterale con la Cina come confermato da Giorgia Meloni, presidente del Consiglio. Ma nelle attuali condizioni, dovrebbe evitare di rinnovare il memorandum perché contiene impegni che non si possono mantenere e in mancanza dei quali cui l’Italia rischia di continuare a essere terra di conquista.