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Chip, la Cina aggira le sanzioni Usa? Il faro della Casa Bianca

Il nuovo chip annunciato da Huawei attira l’attenzione di Washington. Il consigliere Sullivan: “Servono più informazioni per stabilirne la tecnologia”.  Nonostante i passi avanti dei suoi campioni high-tech, restano ancora dei dubbi sull’autonomia di Pechino nel settore. Rimane  il collo di bottiglia lungo la  supply chain: i macchinari olandesi, con ulteriori restrizioni che scattano nel 2024. Intanto la Cina prepara un nuovo fondo d’investimento sui chip…

La Casa Bianca sta cercando maggiori informazioni sulla genesi tecnologica del chip che sarebbe all’interno del nuovo smartphone lanciato da Huawei. A confermarlo, nella giornata di martedì, lo stesso Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden. L’urgenza nasce dalla possibilità che tale sviluppo possa mettere in dubbio l’efficacia delle misure restrittive imposte dal Dipartimento del Commercio americano, ma rimangono tuttavia punti ancora oscuri sulla natura della tecnologia impiegata e come il chip sia stato prodotto. Dettagli sui quali ora gli Usa indagheranno.

Il colosso high-tech cinese ha rivelato che il Mate 60 Pro contiene un microprocessore avanzato, il Kirin 9000s, che secondo le prime ricostruzioni sarebbe stato prodotto dal principale chipmaker cinese, Semiconductor Manufacturing International Corp (Smic). Il chip sarebbe molto sofisticato, intorno ai 7 nanometri. Un successo che dimostrerebbe quanto la Cina abbia ridotto, seppur rimanendo due generazioni indietro nella manifattura, il gap tecnologico con gli Stati Uniti, in particolare nei confronti dell’americana Intel, la coreana Samsung e della taiwanese Tsmc.

Il microprocessore integrato rappresenterebbe, infatti, un significativo passo in avanti di Smic, dal momento che potrebbe trattarsi del primo prodotto realizzato con tecnologia a quella scala nanometrcia. Uno sviluppo che solleva alcuni quesiti. Da una parte, confermerebbe quanto l’ecosistema dei semiconduttori cinese abbia realizzato progressi negli ultimi anni per raggiungere l’‘autonomia tecnologica’ dall’Occidente, come auspicato da Xi Jinping e dai vertici del Partito. Dall’altra, solleverebbe dubbi sull’efficacia della strategia di restrizioni operata dagli Usa e alleati.

I primi report che giungono dalla Cina suggeriscono che il nuovo smartphone garantirebbe performance notevolmente migliorate, per Cpu e Gpu, soprattutto rispetto agli altri prodotti di punta ancorati alla tecnologia 5G. Secondo Bloomberg, avrebbe raggiunto i 350 megabyte al secondo di capacità computazionale, praticamente in parità con i rivali (tra cui l’iPhone). Tuttavia, nè Huawei nè Smic hanno rivelato le caratteristiche tecniche del chip. Il microprocessore sarebbe stato sviluppato dalla divisione design del colosso di Shenzhen, HiSilicon e poi prodotto da Smic. Inoltre, lo smartphone include il sistema operativo di proprietà di Huawei, HarmonyOS 4.0, che ha rimpiazzato Android, di Google.

L’annuncio è coinciso proprio con la visita in Cina del Segretario al Commercio americano, Gina Raimondo, che ha ribadito la ferrea volontà dell’amministrazione di proseguire con la strategia di contenimento tecnologico, nonostante le eccezzioni accordate alle aziende coreane e taiwanesi che vedono nella Cina un importante mercato. L’annuncio ha inoltre anticipato l’uscita del nuovo iPhone 15 della Apple. Si tratta, chiaramente, di una scelta dimostrativa delle rinnovate capacità tecnologiche cinesi sul piano geopolitico e commerciale.

Huawei è al centro della ‘guerra’ tecnologica tra Usa e Cina sin dal primo round di sanzioni e restrizioni imposte dagli Stati Uniti nel 2019, quando il Bureau of Industry and Security lo inserì, poco dopo seguito da SMIC nel dicembre 2020, in una lista di entità a stretto contatto con l’Esercito di Liberazione Popolare e dunque ritenute un rischio per la sicurezza nazionale. Le misure americane, che vietavano la vendita di chip e tecnologia americana (in particolare, i servizi di design, IP e software Eda) al colosso cinese, hanno imposto un duro colpo al business dell’azienda, in particolare al segmento smartphone che prima del 2019 vantava il più grande giro d’affari a livello mondiale. A settembre del 2020, Tsmc smise di produrre chip per HiSilicon. La compagnia, in palesi difficoltà, ha così faticato a procurarsi chip per i suoi modelli più avanzati, oltra ad essere costretta a vendere il brand Honor ad un consorzio di investitori cinesi.

Nel frattempo, Smic, che opera nel segmento foundry dietro le rivali Tsmc, Samsung, United Microelectronics Corp (Taiwan) e Global Foundries (Usa) ha fortemente beneficiato della crescita degli ordinativi di semiconduttori dopo la crisi del 2021-22. L’azienda ha infatti riportato una crescita di fatturato del 43% nella prima metà del 2023 e si aspetta un +28% per la fine dell’anno. Secondo gli analisti, SMIC non cambierà, nonostante questo poderoso risultato, i suoi piani di espansione produttiva e di investimenti in spesa di capitale, ma si concentrerà a seconda della domanda dei clienti. Infatti, nonostante Pechino la considerà il suo chipmaker di punta, Smic considerà il segmento 28/40 nanometri molto stabile (principalmente rivolto all’automotive), oltre a possedere uno share limitato del mercato foundry (circa il 5% globale) che la isola da potenziali rischi di sovraofferta sul mercato. Nel primo quadrimestre nel 2023, Smic ha visto l’80% delle entrate provenire dal mercato cinese, seguito al 18% dal Nord America. Una suddivisione geografica che rimane allineata con il trend degli ultimi anni. Ben il 68% delle entrate è dovuto alla produzione di chip per il segmento smartphone, l’IoT e l’elettronica di consumo.

Figura 1 | Roadmap sui chip dei principali produttori mondiali nel contesto della ‘guerra’ tecnologica. I nodi sono indicativi rispetto all’anno di produzione stimato. Fonte: analisi dell’autore

Nonostante il breaktrough tecnologico realizzato per Huawei, Smic avrebbe una produzione ancora molto limitata di chip a 7 nanometri, rimanendo comunque due generazioni indietro rispetto ai concorrenti (Figura 1). Ma come è possibile spiegare questo passo in avanti? Secondo una ricostruzione di Bloomberg, vi sono due possibili ordini di motivi. Innanzitutto, risulterebbe possibile costruire chip avanzati con apparecchiature più vecchie (come i dispositivi DUV), ricorrendo ad una serie di tecniche innovative. L’approccio più comune, chiamato multi-patterning, è stato concepito 40 anni fa ed è stato utilizzato anche da Tsmc. Per ridurre il numero di connessioni tra i transistori aldilà di quanto teoricamente possibile in assenza di macchinari avanzati, questo approccio consente di esporre un wafer di silicio alla luce ultravioletta per più volte invece che una volta soltano: sostanzialmente, ripetendo quattro volte la litografia. Chiaramente questo approccio richiede un maggior costo per fabbricare i chip, impiegando un numero di macchinari superiore, e facendo rallentare così i volumi di produzione.

E’ chiaramente una dimostrazione non di quanto le restrizioni Usa non funzioni nel complesso – Smic, e la Cina, senza le apparecchiature avanzate devono reiventarsi i processi produttivi, in questo caso con un successo non rivoluzionario, ma incrementale – ma di come non colmino tutti i potenziali leaks dovuti alla complessità dell’industria dei chip. L’amministrazione americana ha infatti limitato i mezzi (le attrezzature) ma definendoli sulla base delle finalità ultime, ovvero evitare che Pechino raggiunga il prodotto finale. Inoltre, cresce anche il partito domestico delle aziende – capitanate dalla SIA – che vedono nelle restrizioni al mercato cinese un rischio per il proprio business e la continuità dell’innovazione americana. Resta tuttavia evidente come il collo di bottiglia delle apparecchiature per la manifattura dei chip diventrà ancora più stretto con l’entrata in vigore delle restrizioni concordate tra Usa, Giappone e Olanda.

Infatti, solo fino al 2024 Asml potrà vendere equipaggiamenti al di fuori delle attuali restrizioni (i dispositivi Duv, meno avanzati rispetto alla litografia ultravioletta estrema) alla Cina, consentendo a Smic e ad altre fonderie cinesi di fare scorte di macchinari per sostenere i volumi produttivi ai nodi interessati. Dunque, è possibile che Smic possa proseguire la manifattura dei chip a 7 nanometri, ma rimane praticamente impossibile che, a partire dal prossimo anno, nuovi risultati possano essere raggiunti sotto quella soglia senza i dispositivi Euv prodotti dall’azienda olandese.

Secondo Lu Xingzhi, analista, raggiunto da Asia Times, “assumendo che Smic stia producendo wafer da 169 millimetri quasri con una resa dell’80%, deve possedere una capacità produttiva N+2 di circa 144.000 wafer. Se deve produrli entro 6 mesi, la produzione mensile deve raggiungere i 24.000 wafer, che è molto più alta di quanto ci aspettassimo”. Se confermati, questi risultati sarebbero un chiaro segnale che l’azienda ha ormai raggiunto la tecnologia dei 7nm ed è pronta a scalare la produzione. Non tutti sono concordi, però, in assenza di conferme ufficiali dalle aziende coinvoltie, sull’effettiva origine del chip: c’è chi sostiene, come riporta il South China Morning Post, che Huawei abbia “comprato” la tecnologia per fabbricare il Kirin 9000s da SMIC, ma non ci sono comunque evidenze, oppure che Smic non sia stato proprio coinvolto.

Intanto, Pechino non si lascia intimidire e anzi, rilancia. Secondo Reuters, la Cina starebbe infatti pianificando un nuovo round di investimenti pubblici da circa 40 miliardi di dollari per supportare l’autonomia tecnologica della sua industria dei semiconduttori. E’ possibile che si tratti del China Integrated Circuit Industry Investment Fund, conosciuto anche come “Big Fund”. Proprio una delle aree della supply chain che verranno prioritizzate è quella dell’equipaggiamento avanzato per produrre chip, dal momento che il ritardo tecnologico persiste proprio su quel segmento rispetto agli Usa e alleati. Tra gli investitori raccolti intorno al fondo nelle cordate precedenti si annoveravano entità statali come la China Development Bank Capital, la China National Tobacco Corporation e China Telecom.

In passato, beneficiari del fondo sono stati proprio Smic, Hua Hong Semiconductor (i due player foundry più importanti per la Cina) e Yangtze Memory Technologies,  un produttore di chip per memoria flash. Tuttavia, gli investimenti pubblici non si sono dimostrati efficaci nel garantire la sovranità tecnologica nel settore. Pechino sta cercando diverse strade, puntando non solo sui campioni tecnologici ma anche su piccole-medie aziende altamente innovative che possano consentire al paese di costruire un ecosistema svincolato dalle forniture occidentali.

In conclusione, se il coinvolgimento di Smicvenisse in qualche modo confermato, si tratterebbe di un piccolo ma non significativo passo di Pechino nel complesso processo di decoupling lungo la filiera dei semiconduttori ancora dominata da input cruciali da aziende occidentali.



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