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Chip, gli Stati Uniti consentono l’export da Taiwan e Corea verso la Cina

Il Dipartimento del Commercio americano starebbe valutando di estendere l’esenzione ai chipmakers taiwanese e coreani oltre la scadenza di ottobre. Il rischio per la stabilità delle catene globali del valore è troppo alto, ma resta invalicabile il limite della sicurezza nazionale…

La guerra economica e industriale sui chip tra Stati Uniti e Cina continua ad offrire colpi di scena, dovuti principalmente alla consapevolezza delle potenziali ripercussioni sulla tenuta delle catene globali del valore.

Secondo le fonti riportate da Asia Nikkei, il Dipartimento del Commercio statunitense, autorità responsabile della serie di restrizioni imposte alle aziende americane e straniere in possesso di tecnologia o equipaggiamento americani – come l’olandese Asml, insieme alle aziende giapponesi che forniscono materiali litografici e fotoresistori essenziali per la fabbricazione di semiconduttori all’avanguardia – starebbe valutando di estendere l’esenzione prevista fino ad ottobre di quest’anno.

La mossa è da considerarsi un passo indietro rispetto alle misure unilaterali, poi concordate ed estese agli alleati, imposte per l’export di chip considerati essenziali per l’avanzamento tecnologico, e dunque militare, nel campo dell’intelligenza artificiale della Cina. Tuttavia, proprio la forte interdipendenza tra quest’ultima e i Paesi asiatici rende difficilmente controllabile eventuali effetti collaterali sul business dei chipmakers coinvolti. Tra i quali si annoverano Samsung Electronics, SK Hynix e Tsmc.

Proprio a luglio, la Semiconductor Industry Association (Sia), in rappresentanza dell’industria americana dei chip, aveva avvertito il governo federale dei rischi che la “guerra” economica alla Cina in questo settore avrebbe comportato per la competitività delle aziende americane, sovraesposte sul mercato cinese (che contava per quasi un terzo dei 570 miliardi di dollari di vendite nel 2022 a livello globale), e delle controparti asiatiche. È possibile che l’amministrazione Biden, in vista delle elezioni presidenziali, abbia accolto la richiesta della Sia temendo che le ripercussioni economiche potessero essere più pesanti di già quanto non siano.

UNA SUPPLY CHAIN COMPLESSA

L’industria viene già da anni turbolenti. La carenza di chip a livello mondiale è stata causata da una serie di fattori complementari. Con la pandemia Covid-19 al centro, che ha visto un aumento della domanda (effetto smartworking) e un calo dell’offerta (a causa delle serrate in tutta l’Asia che hanno portato alla chiusura degli impianti). Altri fattori includono l’aumento del data mining (in cui sono necessarie le Gpu, aumentando così ancora una volta la domanda), la siccità che ha colpito Taiwan nel 2021, con conseguenti problemi di produzione di acqua ultrapura per la pulizia delle fabbriche e dei wafer; gli incendi in diversi impianti di produzione di proprietà di Asahi Kaseri, Renesas e Asml, e le difficoltà di approvvigionamento di neon (utilizzato per i laser nella produzione di chip) a causa della guerra Russia-Ucraina, in quanto quest’ultima era responsabile della fornitura di oltre il 90% del neon statunitense per semiconduttori.

Eventi che hanno portato l’amministrazione Biden a scommettere sul rilancio della produzione domestica, con il Chips Act e il tentativo di attrarre i più grandi player globali, come appunto Tsmc e Samsung.

Proprio le aziende coreane hanno una forte connessione con la Cina continentale. Circa il 40% della foundry capacity di SK Hynix nel dominio Dram (i chip di memoria) è localizzata lì, proprio per servire le grandi multinazionali che assemblano smartphone e dispositivi elettronici. È dunque difficile immaginare una fuga repentina dal Paese per effetto delle restrizioni americane. La stessa Tsmc possiede una fonderia a Nanjing, seppur su nodi fuori dal perimetro tracciato dalle agenzie federali americane. Samsung, Tsmc e Intel rimangono le uniche aziende capaci di fabbricare chip avanzati. La cinese Smic, nei suoi impianti di Tianjin e Shenzhen, è ferma a 7 nanometri (con l’impiego, proprio per il ban americano, di tecnologia DUV per l’incisione dei chip sui wafer di silicio).

La complessità di questa supply chain, nel senso che una minima turbolenza in un nodo non può che avere ripercussione sul network circostante, è tale da costituire una vera e propria deterrenza ad un escalation senza esclusione di colpi. Oggi, circa 1.15 trilioni di chip sono venduti ogni anno, con la partecipazione di Usa, Corea, Giappone, Cina, Taiwan ed Europa, con ciascuna regione che contribuisce circa all’8%, o più, del valore aggiunto. Per ragioni di ottimizzazione di questo processo, che coinvolge più di 500 operazioni sofisticate, dal design alle fonderie, e che porta un singolo chip ad attraversare più di 70 confini prima di raggiungere il consumatore finale, come sappiamo i ruoli nella catena del valore sono stati, nel tempo, suddivisi tra i diversi attori.

L’AI AL CENTRO DELLO SCONTRO SUI CHIP

Tuttavia, oggi le ragioni geopolitiche perturbano questo mercato, dal momento che dalla capacità di fabbricare e concepire chip sempre più avanzati passa il controllo delle tecnologie disruptive, come l’AI, il quantum computing e il 5G (considerate di uso militare oltre che civile), oltre a quelle legate all’elettrificazione e decarbonizzazione. Ma sono le prime a preoccupare Washington e ad aver innescato una vera e propria strategia di ‘contenimento’ tecnologico.

Infatti, in aggiunta alle restrizioni sopra descritte, il 26 agosto 2022 il governo degli Stati Uniti ha vietato ad Amd e Nvidia (principali chipmakers nel design dei chip avanzati, sotto i 7 nanometri) di esportare in Cina chip che possono essere utilizzati per supportare lo sviluppo di sistemi AI. Secondo un documento SEC presentato da Nvidia in agosto, questo divieto si concretizza in un accordo di licenza, con effetto immediato, per qualsiasi futura esportazione in Cina (compresa Hong Kong) e Russia dei circuiti integrati A100 e H100 di Nvidia. Anche i sistemi che incorporano i circuiti integrati A100 e H100 sono coperti dal nuovo obbligo di licenza, così come tutti i futuri circuiti integrati più o meno avanzati come l’A100. Il deposito afferma che il governo statunitense ha indicato che il nuovo requisito di licenza è stato concepito per ridurre il rischio che i prodotti indicati possano essere utilizzati in ambito militare dalla Cina o dalla Russia. In modo simile, un portavoce di Amd – parlando con Reuters – aveva dichiarato che l’azienda avesse ricevuto nuovi requisiti di licenza che di fatto bloccavano le esportazioni dei chip AI MI250 di Amd in Cina.

Questi requisiti alludono al fatto che le restrizioni imposte alle aziende cinesi dal governo statunitense non sono semplicemente un tentativo di prendere il controllo della catena di approvvigionamento della regione Asia-Pacifico (dove è concentrato più del 90% della produzione di chip avanzati, specialmente a Taiwan), ma anche una questione di sicurezza nazionale. Le misure sono un tentativo da parte degli Stati Uniti di arrestare l’impennata cinese dell’IA, prevenendo che la Cina possegga l’hardware avanzato necessario per realizzare la supremazia dell’IA (una preoccupazione non infondata, dato che nel 2018 la Cina ha depositato un numero di brevetti in tecnologie di IA 2,5 volte superiore a quello degli Stati Uniti).

Per questo motivo, come affermava in un brief a seguito delle misure americane il Center for Strategic & International Studies, “i chip AI di fascia alta non possono più essere venduti a nessuna entità che opera in Cina, sia essa l’esercito cinese, un’azienda tecnologica cinese o persino un’azienda statunitense che gestisce un centro dati in Cina”. Ma si ritiene che più la morsa americana si farà stretta, più la Cina tenterà diverse vie per costruirsi la sua autonomia tecnologica nel settore.

LE CONTROMISURE CINESI

La Cina è innanzitutto vorace di chip, dal momento che consuma quasi il 50% dei semiconduttori prodotti a livello mondiale, ma ne fabbrica solamente il 10%. Quindi conta molto sulle importazioni (solo nel 2021 aveva importato semiconduttori per un valore superiore a 432 miliardi di dollari, una dipendenza dall’estero più strategica che quella sul petrolio). Molti dei chip che la Cina produce in autonomia, altrimenti chiamati legacy chip e grazie alle joint venture con aziende occidentali, sono meno avanzati e sui quali non vi è l’attenzione di Washington. Ma su cui Pechino pianifica di costruire un vantaggio più quantitativo che qualitativo rispetto all’Occidente.

Per ridurre il gap, si calcola che la Cina avrebbe investito, tra il 2015 e il 2025 (il decennio del Made in China 2025) più di 138 miliardi di euro per raggiungere la sovranità tecnologica nel campo dei chip. Con risultati altalenanti, considerando soprattutto la difficoltà di ricreare un ecosistema complesso – dai materiali, agli agenti chimici fino alle costosissime e avanzatissime macchine EUV, essenziali per scalare la legge di Moore verso nodi avanzati.

Di recente, per aggirare le sanzioni americane risalenti all’amministrazione Trump, è stato riportato che Huawei abbia creato una serie di “fonderie ombra” per continuare a nutrire il sogno di supremazia tecnologica della Cina. Inoltre, per scongiurare che il gap tecnologico con il rivale americano si approfondisse, l’autorità antitrust cinese ha di fatto bloccato l’acquisizione di Intel del player israeliano Tower Semiconductor.

Inoltre, le restrizioni che potrebbero entrare in vigore su gallio e germanio ad ottobre di quest’anno non sono da sottovalutare. Il germanio è utilizzato in applicazioni come le termocamere, i pannelli solari e le telecomunicazioni, dove può essere impiegato nei fotodiodi per convertire i segnali luminosi in segnali elettrici. Il gallio è spesso accoppiato con l’arsenico per formare l’arseniuro di gallio, un semiconduttore composto che può operare a temperature e frequenze più elevate rispetto al silicio. Attualmente, la Cina produce circa il 98% del gallio mondiale e controlla circa il 68% della produzione globale di germanio raffinato in vari Paesi, secondo lo USGS.

COSA CI RISERVA IL FUTURO?

In conclusione, la mossa americana potrebbe essere soltanto una tregua per la concomitanza di diversi fattori (le elezioni impellenti, la pressione della SIA, le difficoltà del decoupling delle aziende coreane e giapponesi). Tuttavia, la pressione degli Stati Uniti difficilmente svanirà nel medio-lungo periodo ed è quindi plausibile che ogni azienda coinvolta cercherà di prendere le giuste contromisure.

Nel caso della Cina, che rappresenta comunque un mercato di riferimento imprescindibile per i chipmakers, la parte più difficile sarà ricreare una supply chain domestica isolata, dai materiali fino ai macchinari avanzati, contando laddove possibile sull’emergere di aziende high-tech (Sme) specializzate cinesi o sulla cooperazione delle aziende straniere che non vogliono (o possono) perdere l’opportunità di mercati in forte crescita, come quello dei veicoli elettrici (EV) ma soprattutto delle applicazioni avanzate (solo perl’IA, i chip avanzati potrebbero diventare un’opportunità da 257 miliardi di dollari entro il 2033). In questa direzione, la Cina ha già superato il Giappone in termini di capacità installata di fonderie (wafer al mese).

Le aziende che hanno una grande partecipazione nel mercato cinese – come Zeiss, un’azienda tedesca che fornisce specchi ad Asml per le sue macchine litografiche a ultravioletti estremi (EUV) e per la quale la Cina è il mercato in più rapida crescita – potrebbero non essere disposte a rinunciare ai ricavi generati dalla Cina.

Nel tentativo di rispettare i controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti, le aziende potrebbero essere incentivate a escludere gli input o i componenti statunitensi dai loro prodotti, in modo da poterli vendere senza ripercussioni in Cina.

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