Nei giorni della visita di Antonio Tajani che apre la strada al disimpegno soft italiano dalla Via della Seta, Pechino torna a combattere con i propri fantasmi, a cominciare dal debito, per arrivare al salvataggio di facciata di Country Garden. L’illusione della Belt&Road e la certezza tricolore dell’export
Da una parte ci sono i guai, che fanno della Cina un’economia tanto strategica quanto malata. Dall’altra c’è l’Occidente, quell’Europa (gli Stati Uniti brillano di luce propria) ancora alla ricerca della completa e incondizionata autonomia industriale. Tanto basta, nell’attesa che l’emancipazione del Vecchio Continente assuma un volto definitivo, a fare del Dragone qualcosa da maneggiare con cura ma di cui non è pensabile non tenerne conto. E questo nonostante una Via della Seta sempre più simile a una illusione ottica più che a una reale opportunità di crescita e sviluppo.
I (SOLITI) GUAI CINESI
La visita di questi giorni di Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepremier, arriva in un momento che per Pechino non potrebbe essere più difficile. Archiviato il vertice dei Brics di Johannesburg, a metà agosto, nel corso del quale è stato sancito un principio e cioè che la vera sfida del Dragone più che con l’Occidente è con l’India (qui l’intervista a Giulio Tremonti), la Cina sta toccando con mano i suoi incubi. Il debito delle amministrazioni locali è ormai fuori controllo, al punto che circa otto enti locali su dieci non hanno più liquidità in cassa e senza la possibilità di emettere nuovi bond per rastrellare denaro dal mercato (chi presterebbe denaro a chi non ha sufficienti garanzie per rimborsarlo).
E non sembra nemmeno poter funzionare la nuova trovata di Pechino, per spingere le province e le municipalità a emettere nuovo debito, con la garanzia dello Stato. La verità è che il tradizionale mezzo di finanziamento, il bond, utilizzato finora in Cina dalle amministrazione, è nei fatti saltato. A questo si aggiungono i buchi neri del mattone. Dopo il collasso de facto di Evergrande, è toccato a un altro gigante, Country Garden, alzare bandiera bianca. Il fatto che nel weekend i creditori del gruppo abbiano concordato la ristrutturazione del pagamento dell’obbligazione in valuta cinese che doveva scadere sabato, spalmando in diverse scadenze su tre anni il pagamento di un bond da 4 miliardi di yuan (515 milioni di euro), non deve illudere.
Country Garden ha dichiarato la scorsa settimana di aver registrato una perdita netta record per i primi sei mesi del 2023 da 48,9 miliardi di yuan (6,2 miliardi di euro), quando nello spesso periodo dello scorso anno, la compagnia registrava un utile netto di 612 milioni di yuan (77.6 milioni di euro). E comunque, l’indebitamento della compagnia è pari a 1.190 miliardi di yuan a fronte di debiti con scadenza inferiore a un anno che sono aumentati del 31% a 69,52 miliardi di yuan (8,8 miliardi di euro). Dunque, verranno rimborsati solo 4 miliardi su poco meno di 70.
ILLUSIONISMO CINESE
In tutto questo maelstrom, la visita di Tajani che, come raccontato a più riprese da Formiche.net, punta ad aprire la strada a un disimpegno italiano dalla Via della Seta. I numeri raccontano che finora la Belt&Road non è stata così gratificante per l’Italia. Se non altro perché nel 2022 l’export italiano verso la Cina è stato pari a 16,4 miliardi di euro, contro i 27 miliardi della Francia e i 107 della Germania. Paesi che mai si sono sognati di firmare il memorandum d’intesa sulla Via della Seta.
Che la Via della Seta cinese non sia stato quello che in molti credevano, ne è convinto anche un economista e analista attento come Francis Fukuyama, che dalle colonne di Foreign Affairs, dice la sua. “Molti progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina non sono riusciti a ottenere i rendimenti attesi dagli analisti. E poiché i governi che hanno negoziato questi progetti hanno spesso accettato di sostenere i prestiti, si sono ritrovati gravati da enormi debiti, incapaci di garantire finanziamenti per progetti futuri o addirittura di onorare il debito già accumulato”, spiega Fukuyama.
“Questo vale non solo per lo Sri Lanka ma anche per Argentina, Kenya, Malesia, Montenegro, Pakistan, Tanzania e molti altri. Il problema per l’Occidente non era tanto l’acquisizione da parte della Cina di porti e altre proprietà strategiche nei Paesi in via di sviluppo, quanto piuttosto il fatto che questi Paesi si sarebbero pericolosamente indebitati, costretti a rivolgersi al Fondo monetario internazionale e altre istituzioni finanziarie internazionali sostenute dall’Occidente per chiedere aiuto per ripagare i loro prestiti cinesi”.
Insomma, “in molte parti del mondo in via di sviluppo, la Cina è arrivata a essere vista come un creditore rapace e inflessibile, non così diverso dalle multinazionali e dai finanziatori occidentali che cercavano di riscuotere i crediti inesigibili nei decenni passati. In altre parole, lungi dall’intraprendere nuove strade come prestatore predatorio, la Cina sembra seguire un percorso ben seguito dagli investitori occidentali. Così facendo, però, Pechino rischia di alienarsi gli stessi paesi che intendeva corteggiare con la BRI e di sperperare la propria influenza economica nei paesi in via di sviluppo. Rischia inoltre di esacerbare una crisi del debito già dolorosa nei mercati emergenti, che potrebbe portare a un “decennio perduto” simile a quello sperimentato da molti paesi dell’America Latina negli anni ’80.
In altre parole, la Bri cinese “pone problemi ai Paesi occidentali, ma la minaccia principale non è strategica. Piuttosto, la Via della Seta crea pressioni che possono destabilizzare i Paesi in via di sviluppo, il che a sua volta crea problemi alle istituzioni internazionali come il Fmi e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, alla quale questi paesi si rivolgono per ricevere assistenza”.
LA LEGGE DELL’EXPORT
Ma se tutto questo è vero questo, allora è altrettanto reale che l’economia italiana è storicamente votata all’export. Gli ultimi dati dell’Istat, rivelano che nel trimestre marzo-maggio 2023, questo si è ridotto del 3,3%, un dato su cui ha pesato il crollo delle esportazioni verso alcuni paesi Ue (-4,2% Germania, -12,1% Belgio) e verso gli Stati Uniti (-5,8%).
Eppure fuori dallo scacchiere transatlantico è tutta un’altra storia. Verso il Dragone le esportazioni lo scorso maggio sono aumentate del 14,9% su base annua Cina, senza considerare che l’Italia attinge dall’ex Celeste Impero anche grandi quantità di semilavorati. Bloomberg, poi, ha stimato che a febbraio 2023, le esportazioni dall’Italia alla Cina hanno superato i tre miliardi di euro (3,3 miliardi di dollari), con un aumento del 131% rispetto all’anno precedente.