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Crisi di Gaza. Sisi porta l’Egitto al centro della scena

Il Cairo ha organizzato una conferenza di alto livello per condividere con i principali attori del Mediterraneo allargato la gestione della situazione a Gaza. C’è il tema umanitario, c’è il rischio sicurezza (migranti e terrorismo), c’è la preoccupazione perché la diplomazia non potrebbe bastare. Al Sisi porta l’Egitto al centro della scena

Il Cairo si prende una parte la scena internazionale attorno alla crisi militare tra Israele e Hamas, che segue il sanguinoso attacco del gruppo palestinese di sabato 7 ottobre. Obiettivo dell’Egitto è creare un centro di dialogo e secondariamente, far essere il Paese l’hub di tali colloqui – che si annunciano complessi, visto che tutto sembra pronto per l’inizio dell’operazione di eradicazione dei terroristi palestinesi dalla Striscia, che Israele sta pianificando sin dalle prime ore dopo l’attacco.

L’elenco dei partecipanti è già un programma

Vale la pena fare l’elenco degli ospiti del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, perché dà già il senso dell’impegno messo in campo dal Cairo. Tra i confermati e quelli in via di conferma definitiva, dovrebbero esserci il presidente palestinese Mahmoud Abbas, il re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa, il principe ereditario del Kuwait Sheikh Meshal al-Ahmad al-Sabah, il primo ministro italiano Giorgia Meloni, il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, il presidente cipriota Nikos Christodoulides, la ministra degli Esteri tedesco Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri francese Catherine Colonna, il ministro degli Esteri giapponese Yoko Kamikawa, il ministro degli Esteri britannico James Cleverly, il ministro degli Esteri norvegese Espen Barth Eide, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e il capo della politica estera dell’Unione europea Josep Borrell.

L’immagine del segretario generale delle Nazioni Unite, al valico di Rafah in Egitto con l’obiettivo di aprire il confine tra l’Egitto e Gaza per consentire l’ingresso di aiuti di emergenza nella Striscia, per Il Cairo è un vanto diplomatico. Al Sisi ha spostato in una contesto securitario delicato il leader onusiano, dimostrando che il suo Paese è un honest broker sulla scena internazionale – un’attività già avviata con il dossier libico e proseguita nel controllo di altri fascicoli regionali.

La questione di Rafah…

Quando la scorsa settimana Israele ha ordinato un significativo sfollamento di civili a Gaza, l’Egitto ha iniziato una fase di riflessione per decidere se permettere ai palestinesi di entrare nel proprio territorio sfruttando proprio Rafah – che attualmente è l’unico collegamento per Gaza, visto che Israele non apre l’assedio finché i terroristi di Hamas non rilasciano gli ostaggi sequestrati.

Il Cairo teme un potenziale esodo palestinese verso la penisola del Sinai. Uno scenario da scongiurare per i rischi associati all’accoglienza di un’ampia popolazione di rifugiati e per la preoccupazione che i militanti possano usare il territorio egiziano per attacchi contro Israele. La situazione ha però portato al blocco totale, da tutti i lati, della Striscia di Gaza, causando gravi carenze di beni di prima necessità, e gli ospedali della regione sono in uno stato critico.

Gli aiuti alimentari sono un elemento minimo, ma diplomaticamente Il Cairo ne rivendica il valore. La situazione presenta elementi politici e storici. Molti egiziani temono che l’apertura del confine a tutti i palestinesi possa portare alla rioccupazione permanente della Striscia di Gaza da parte di Israele e provocare una crisi di rifugiati. In passato, durante i precedenti conflitti israelo-palestinesi, si sono verificati questo spostamenti verso gli Stati arabi confinanti. Come l’Egitto, anche la Giordania tema certe condizioni.

… le preoccupazioni del Cairo

La Lega Araba, con sede nella capitale egiziana e dunque molto sensibile al dibattito del Paese, ha respinto qualsiasi tentativo di trasferire i palestinesi negli Stati vicini e al Sisi usato il proprio sostegno alla causa palestinese sottolineando l’importanza che i palestinesi rimangano nella loro terra.

C’è una questione interna sia al Cairo che ad Amman: le collettività sono molto tese, lamentano condizioni socio-economiche in costante declino e le leadership non vogliono correre rischi che il caos a Gaza si rifletta su questo contesto. In un’immagine: oggi Sisi ha indetto proteste pro-Palestina in Egitto e una folla di egiziani si è recata in piazza Tahrir (che non era un luogo di protesta autorizzato dallo stato) e ha intonato, tra le altre cose, il vecchio ritornello della Primavera Araba di “pane, libertà, giustizia sociale”.

L’Egitto è anche preoccupato per le minacce alla sicurezza, tra cui le potenziali infiltrazioni di Hamas e i legami tra gli insorti dello Stato Islamico nella regione del Sinai – dove si trova la sanguinosa Wilayat al Sinai – che l’Egitto combatte da oltre un decennio.

Il governo egiziano continua anche a temere il caos che potrebbe scaturire da sermoni troppo zelanti, soprattutto da parte di predicatori meno ecumenici rispetto alla più controllata linea Al-Azhar, l’autorità teologica egiziana e la moschea più famosa del Cairo. Anzi, certe occasioni sono ghiotte per chi intende spingere le posizioni più radicali.

Il Cairo vorrebbe portare queste problematiche davanti alla platea invitata alla conferenza, in modo da cercare di cogestire sia l’innesco di una crisi umanitaria più profonda dell’attuale, sia quello che potrebbe essere il grilletto dell’innesco: l’operazione di terra.

La diplomazia e le speranze

La conferenza fa parte del forcing diplomatico in corso, e alla luce degli ultimi avvenimento – gli attacchi contro strutture occidentali in tutta la regione e là manifestazioni anti-israeliane scarrellate in narrazioni panarabiste contro l’Occidente – si tratta di un’attività necessaria. Il punto è che agli incontri mancheranno Iran e Israele, due attori chiave e parti in causa dirette (anche l’Iran, viste le relazioni con Hamas e altre milizie anti-occidentali regionali), nonché gli Stati Uniti, che saranno rappresentati soltanto dalla chargé d’affaires Beth Jones (Antony Blinken, che sta guidando l’intera diplomazia sulla crisi, è a Bruxelles per il summit Usa-Ue).

I leader arabi sottolineano che l’unica soluzione possibile è che l’Occidente mantenga le sue promesse di creare uno Stato palestinese indipendente accanto a Israele al più presto – oggi un forte input su questo è arrivato a Riad. Lo stesso Sisi ha sottolineato l’importanza di discutere il futuro della questione palestinese alla conferenza, criticando la rappresaglia israeliana, affermando che supera i limiti dell’autodifesa ed equivale a una punizione collettiva dei gazesi.

Alcuni politici regionali criticano i leader occidentali per il loro ritardo nel riconoscere la crisi umanitaria a Gaza. Sostengono che ci sia un doppio standard nel modo in cui vengono percepiti i civili arabi ed esprimono preoccupazione per l’escalation della retorica. La conferenza del Cairo è vista come un modo potenziale per trovare una soluzione per tutte le parti coinvolte, data l’alta posta in gioco della situazione.


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