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Microchip, ecco l’impatto degli investimenti dei chipmakers globali in Europa

Gli annunci di Tsmc, Intel e Global Foundries, attratti dagli investimenti pubblici europei, catalizzano l’interesse di altri importanti fornitori dell’industria per servire un nascente ecosistema continentale per i semiconduttori più all’avanguardia. Ecco l’importanza della domanda industriale

La geopolitica delle supply chain è un concetto che Thierry Breton, Commissario europeo al Mercato e ai servizi dell’Ue, ha più volte enunciato nei suoi discorsi pubblici e nell’annunciare importanti iniziative della Commissione su investimenti e ricerca nei settori strategici, come quello dei semiconduttori e delle batterie.

Si tratta di industrie complesse, che ruotano intorno a pochi grandi player del settore che hanno acquisito, dopo decenni di investimenti, R&D e partnership ravvicinate con i colossi del digitale e non solo, quella scala necessaria che a sua volta funge da centro gravitazionale di migliaia di fornitori. È il caso, naturalmente, delle fonderie o fab, ovvero quelle aziende attive nell’industria dei chip che producono, per sé o per conto terzi a seconda del modello di business, wafer e chip con tecnologie e processi produttivi diversi, a seconda del consumatore finale.

Parliamo di Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation, che ha di recente annunciato in partnership con Infineon, NXP e Bosch una fonderia da 10 miliardi di euro di investimento che produrrà chip a partire dal 2027, con il settore automotive principale cliente dal momento che l’elettrificazione della flotta aumenterà il numero di microcontrollori e microprocessori all’interno di ogni veicolo. O di GlobalFoundries, altro chipmaker che, insieme all’italo-francese STMicroelectronics costruirà un impianto da 5.7 miliardi di euro in Francia, sempre per servire i grandi produttori di auto continentali. O dell’americana Intel, che si è impegnata ad investire 30 miliardi in due fabs all’avanguardia nella provincia tedesca del Mgdeburgo e che già possiede l’unica fonderia in Europa capace di produtte chip logici per applicazioni come l’intelligenza artificiale, in Irlanda.

Il passaggio dell’European Chips Act – 46 miliardi di incentivi pubblici per aumentare lo share europeo nell’industria globale dei chip dal 10 al 20% entro il 2030 – lo scorso anno ha chiaramente catalizzato, in una direzione comparabile all’omologo americano, una serie di investimenti chiave per riportare parte della produzione in Europa, o quantomeno incentivare i grandi produttori di chip ad investire sul continente per il mercato europeo colmando, così, quell’apparente vulnerabilità industriale che si era palesata durante la pandemia da Covid-19 e che aveva messo in ginocchio le grandi case automobilistiche.

Ma si tratta, chiaramente, di un primo passo. Maggiori capacità wafer-per-month di produzione in Europa non isolano il continente dal momento che le grandi fonderie richiedono tutta una serie di fornitori (organizzati più in network che in una vera e propria “catena”) per renderle operative: parliamo di materiali avanzati, basati su silicio e gallio, o di agenti chimici necessari per i numerosissimi step di produzione dal wafer al circuito integrato. Secondo il Financial Times, che ha raccolto la testimonianza di manager di importanti gruppi industriali di questo segmento – come la taiwanese Lcy Group, fornitore di Tsmc, o la giapponese Tokuyama – decenni di offshoring delle attività produttive, che hanno visto decrescere la quota europea su scala globale, hanno lasciato le industrie continentali con know-how e tecnologie obsolete, troppo focalizzate su chip maturi (legacy o trailing-edge come sono classificati dagli operatori) tra i 50-180 nanometri. E che richiedono, di conseguenza, una tipologia di agenti chimici e prodotti che non possono essere impiegati per nodi più avanzati.

I dati sulla catena di approvvigionamento confermano che le aziende europee del settore dei semiconduttori si affidano fortemente a fornitori e a clienti con sede al di fuori dell’Ue. Secondo un’analisi del Joint Research Centre (JRC) dello scorso anno, in media quasi l’80% dei fornitori delle imprese europee che operano nel settore dei semiconduttori ha sede al di fuori dell’Ue. Inoltre, le aziende europee che riforniscono l’industria dei semiconduttori (parliamo, dunque, di aziende che operano nel segmento Semiconductor Manufacturing Equipment (Sme) e di aziende che forniscono materiali e/o prodotti chimici) hanno solo il 37% dei loro clienti nell’Ue, dal momento che l’hub manifatturiero è ancora molto sbilanciato tra Taiwan, Cina e Corea del Sud.

Alcune di queste sostanze, utilizzate per lo più nelle fasi di cleaning ed etching dei wafer di silicio (che devono rimanere ad una purezza dell’ordine di 1 su 1 miliardo ed essere trattati in ambienti ultra controllati) sono, per esempio, l’alcol isopropilico (Ipa), spesso carente sul mercato. I grandi fornitori globali sono, oltre a quelle menzionate in precedenza, un’altra azienda giapponese che è Screen Semiconductor Solutions per le fasi di “pulitura” dei wafer dalle impurità, con l’impiego degli Ipa. Oppure, Applied Materials, Lam Research e Tokyo Electron per le attività di etching, ovvero quando il materiale in eccesso, costruito tramite l’utilizzo di una foto-maschera del chip inciso attraverso la litografia e applicato sul substrato di silicio, viene rimosso attraverso un processo chimico.

Anche l’acido solforico è cruciale, ma che l’Ue non produce a sufficienza e nella qualità richiesta dalle fonderie. Se mischiato con la fluorite – minerale composto da floruro di calcio e prodotto dal 59% dalla Cina, Messico (11%) e Mongolia (8%) – si ottiene il fluoruro di idrogeno che, se mischiato con acqua, si ottiene l’acido fluoridrico che può essere processato ed utilizzato ad uno stadio elettrochimico per la manifattura di chip. Non è dunque un caso che la fluorite sia considerata un minerale “critico” dalla Commissione europea. Tra le aziende leader fornitrici si annoverano la nippo-taiwanese Formosa Daikin Advanced Chemicals, la giapponese Stella Chemifa e le tedesche (più note) Merck e Basf.

Non si tratta, dunque, solo delle fab. Sono nodi strategici, ma su cui convergono reti di fornitori senza i quali rimarrebbero immense cattedrali high-tech in un deserto di puro silicio. Ecco perché il mito della sovranità tecnologica, soprattutto nel campo dei chip e non solo, è destinato a rimanere tale: i costi per costruire una filiera integrata e regionalizzata sarebbe troppo alti, infatti secondo un report SIA-BCG del 2021, in uno scenario di “autarchia” regionale spinta dalle frizione geopolitiche Usa-Cina e dall’eccessiva concentrazione del segmento foundry in Asia-Pacifico potrebbero indurre ad un amento del 35-65% dei costi dei chip e investimenti tra i 900 e 1.225 miliardi aggiuntivi per sostenere la domanda globale nel 2019.

Quello che rimane cruciale è capire il funzionamento della supply chain e individuare potenziali colli di bottiglia: è uno dei punti d’intervento del Chips Act europeo, con l’iniziativa di creare un sistema di early warning nel caso di interruzioni lungo le catene di fornitura.

In ogni caso, aver attirato grandi produttori, come Tsmc, Intel e Global Foundries, in Europa rappresenta sicuramente una vittoria, soprattutto per la condivisione con i player europei di importantissime best practices, know-how nel processo produttivo sui nodi più avanzati che erano sicuramente carenti nell’ecosistema europeo. Con il loro impegno ad investire e produrre sul continente, e la creazione così di una domanda interna per sub-componenti, materiali e prodotti chimici è plausibile che seguiranno a ruota i fornitori. Resta da capire quanto questo network potrà regionalizzarsi, o dovrà necessariamente fare affidamento sulle aziende specializzate extra-Ue.

 



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