L’impennata dei prezzi del petrolio sembra più una reazione istintiva che una riedizione della crisi degli anni 70. Ma una “manina” dell’Iran nella guerra in corso tra i militanti jihadisti e Israele può causare effetti a cascata nel complesso reticolo di relazioni tra i Paesi mediorientali e quelli Opec+, ridisegnando gli equilibri globali. Occhio a Arabia Saudita e Russia
L’esplosione di violenza in Medioriente si sta già riflettendo nei prezzi globali del petrolio. Lunedì i futures del greggio Brent, il riferimento a livello mondiale, sono schizzati di quasi il 5% prima di riassestarsi intorno agli 87 dollari al barile. Stessa storia per l’indice West Texas, stabile sugli 86 dollari dopo un picco oltre gli 86. Queste cifre sono comunque più alte del 3% rispetto a venerdì scorso, prima della sanguinosa aggressione di Hamas contro i cittadini israeliani che finora ha provocato oltre 1.100 morti da ambo le parti e spinto il governo israeliano a lanciarsi in una risposta militare.
La dinamica porta con sé echi della crisi energetica degli anni Settanta, iniziata appunto con la guerra del Kippur (6 ottobre 1973, data che Hamas ha voluto onorare con l’azione) e portata avanti dai membri arabi dell’Opec che al tempo decisero di sostenere l’attacco di Egitto e Siria contro Israele a colpi di embargo e prezzi più aspri. Come allora, anche la dinamica di oggi chiama in causa l’intricata rete di alleanze tra produttori di petrolio e gli Stati che ruotano attorno alla questione israelo-palestinese.
Tuttavia, secondo gli analisti il parallelismo è ancora troppo tenue. L’impennata dei prezzi del greggio di lunedì ha le caratteristiche di una risposta istintiva agli sviluppi geopolitici e non si può ancora classificare come un aumento strutturale; l’impatto sul mercato globale delle forniture energetiche dovrebbe dunque essere contenuto. Non si può però escludere che un inasprimento del conflitto possa portare diversi effetti a cascata, tra cui le reazioni dei Paesi produttori di petrolio, che sono in posizione di alterare gli equilibri in maniera molto più incisiva.
Gli occhi sono puntati sull’Iran da quando il Wall Street Journal ha sostenuto che gli ufficiali di Teheran abbiano “aiutato Hamas a pianificare l’attacco di sabato” e “dato il via libera” durante un incontro a Beirut lunedì scorso. La testata cita membri influenti di Hamas e Hezbollah, l’organizzazione paramilitare finanziata dall’Iran e di stanza nel sud del Libano. Domenica il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha cautamente dichiarato che Washington non ha “ancora visto le prove” di un coinvolgimento iraniano. Anche perché qualora fosse confermato, Teheran potrebbe reagire alle probabili sanzioni occidentali limitando il flusso di petroliere attraverso lo stretto di Hormuz, snodo cruciale per il commercio di greggio.
Sullo sfondo c’è anche il processo di normalizzazione tra Israele e i Paesi del Medioriente. Hezbollah ha dichiarato esplicitamente che l’attacco di Hamas è un messaggio diretto a loro, i Paesi coinvolti negli Accordi di Abramo: Emirati, Bahrein e Marocco, più – potenzialmente – l’Arabia Saudita, storico campione dei diritti dei palestinesi, che lavora sottotraccia da tempo per normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico. Riad per ora non si sbilancia: da una parte ha definito gli israeliani una “forza di occupazione”, utilizzando un lessico ben conosciuto ai Paesi arabi, ma dall’altra si era appena offerta di aumentare la produzione di petrolio in coincidenza con il prossimo picco in cambio di un accordo con gli Usa nel campo della difesa (sempre nel contesto degli Accordi di Abramo ma prima dello scoppio delle ostilità).
La geometria è complessa. Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha chiamato i vertici di Hamas per congratularsi della “vittoria”. Tuttavia, come rileva Reuters, occorre chiedersi quanto convenga all’Iran ostacolare il processo di normalizzazione saudita sostenendo attivamente Hamas e Hezbollah nella loro battaglia contro Israele. Le relazioni tra Teheran e Riad sono in fase di forte distensione (sotto l’egida cinese) dopo anni passati su fronti contrapposti in Yemen, ed è imporbabile che l’aumento dell’instabilità in Medioriente possa portare benefici di lungo corso al regime islamista. Se effettivamente il nemico giurato di Israele è coinvolto nel conflitto, deve mettere sul piatto la reazione dell’Arabia Saudita e il potenziale indebolimento del fronte Opec+ oltre alle risposte occidentali.
Un discorso parallelo vale anche per la Russia. L’aumento di instabilità nelle relazioni e sui mercati del greggio va anche a vantaggio di Mosca, per cui l’esportazione di idrocarburi è il principale canale di indotto (basti pensare che vende il suo greggio sotto l’indice Urals al disopra del tetto al prezzo occidentale dai primi di luglio). Più aumenta il valore del petrolio e più soldi da utilizzare nell’offensiva contro l’Ucraina scorrono nei forzieri del Cremlino. In più, per Mosca, il caro-benzina ha il gradito effetto di aumentare la pressione sociale ed erodere il fronte occidentale a sostegno di Kyiv – in un periodo delicatissimo di campagna elettorale in Unione europea, Stati Uniti e Regno Unito. Benefici che Vladimir Putin deve però bilanciare con il rischio di inimicarsi Israele, rimasto neutrale rispetto all’invasione dell’Ucraina.
Sono tanti i tasselli nel mosaico, e ogni sviluppo potrebbe portare ramificazioni che vanno ben al di là del Medioriente. Un’eventualità che i Paesi occidentali, Italia inclusa, vogliono scongiurare lavorando per vie diplomatiche. Ma il sentimento diffuso tra gli addetti ai lavori è che gli eventi messi in moto dall’attacco di Hamas ridisegneranno permanentemente perlomeno gli equilibri regionali, e forse anche quelli globali.