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Svezia, Hamas-Israele e Azerbaigian. Cosa c’è dietro le ultime di Erdogan

Erdogan studia la situazione attorno a Gaza. Il raffreddamento dei rapporti con Hamas è momentaneo, la linea in difesa della causa palestinese è tattica, il dialogo con Israele è strategico (pensando a Nato, Usa, Ue)

Sin dall’inizio di questa nuova, vecchia crisi mediorientale, con l’attacco sanguinario di Hamas contro Israele, la Turchia ha cercato di gestire la propria posizione. Da un lato restando un Paese sostenitore della causa palestinese — argomento dove si muove negli ultimi anni anche in contrasto con i regni sunniti del Golfo che nella narrazione intra-islamica avrebbero marginalizzato la questione per normalizzare i rapporti con Gerusalemme. Da un altro lato, Ankara ha cercato di non perdere contatto con Israele — con cui ha raggiunto una fase di equilibrio anche legata al contrasto a un nemico, comune, l’Iran, sostenitore armeno contro l’Azerbaigian, parte degli Stati Uniti del Mondo Turco, e ottimo cliente militare israeliano.

La crisi ha colpito in un momento in cui il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, sta perseguendo la normalizzazione con le potenze regionali (tra cui Israele). Dopo anni di battibecchi bilaterali, Erdogan ha incontrato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il mese scorso e lo ha invitato a visitare Ankara. Netanyahu, prima del massacro del 7 ottobre, era impegnato in attività diplomatiche per distendere i rapporti tra il suo Paese e i vicini. Questi impegni, nonostante un’apparente pausa tattica, è destinato a continuare vista l’importanza strategica.

Allontanare Hamas (per ora)

Una nuova apertura verso Israele dovrebbe permettere ad Ankara, che ha rapporti storici con Hamas, di non essere isolata. Erdogan ha percepito le priorità, e non a caso il suo governo avrebbe chiesto al leader del gruppo palestinese responsabile dell’attacco a Israele, Ismail Haniyeh, e ad altri alti funzionari (tra cui il suo vice Saleh al Arouri), di lasciare il Paese con discrezione. Le autorità turche avrebbero invitato i palestinesi ad “allontanarsi gentilmente”, scrive il sempre informato Al Monitor. Haniyeh — che nei giorni scorsi ha avuto un colloquio telefonico con Erdogan — vive protetto tra Turchia e Qatar. Ma il fatto che fosse a Istanbul proprio il 7 ottobre è stato considerato imbarazzante dai turchi — tanto più dopo che sono circolate sui social network le sue “preghiere di gratitudine” davanti alle immagini del massacro.

Dietro la sollecitazione potrebbe esserci anche la pressione statunitense, che Ankara in questo momento starebbe accettando anche nell’ottica del perseverare i propri interessi. C’è una partita doppia in corso, con cui la Turchia mira al rimodellamento degli equilibri tra Azerbaigian e Armenia (dopo la vittoria pan-turca nel Nagorno-Karabakh) e alle operazione di sicurezza al confine siriano (contro i curdi).

La danza diplomatica

Per Washington, Ankara offre la possibilità di muoversi tra tavoli diversi, da quello che sblocca l’ingresso della Svezia nella Nato, a quello di dialogo tra Iran e Russia sulla crisi mediorientale — i ministri degli Esteri dei tre Paesi, insieme a quelli di Armenia e Azerbaigian, “si sono scambiati opinioni sulla situazione a Gaza” durante il secondo vertice sul Caucaso a Teheran e “hanno sottolineato la necessità di porre immediatamente fine agli attacchi contro i civili innocenti”. Per tutto questo, gli Usa ci tengono a tenere Ankara agganciata (anche se non pubblicamente).

In un’intervista con Haberturk TV la scorsa settimana, Khaled Mashal, un’altra figura di alto livello di Hamas, si è lamentato perché il gruppo si aspettava un sostegno più forte da Ankara: “Ho un grande rispetto per la Turchia. “La Turchia dovrebbe dire ‘stop’ a Israele”, ha detto. Mashal è stato protagonista di un’apparizione televisiva su al Arabiya che probabilmente Riad e Abu Dhabi hanno usato per marcare la proprio posizione — di distacco — da Hamas.

Lo spazio turco

Sebbene per i leader di Hamas la scelta turca di raffreddare i rapporti è problematica — perché marca un ulteriore isolamento del gruppo — Ankara potrebbe non vedere la decisione come irreversibile. È una mossa tattica. D’altronde, dichiarazioni come quella del ministro degli Esteri Hakan Fidan — “Poiché gli occidentali definiscono Hamas come un’organizzazione terroristica, valutano tutte le sue attività nel quadro del terrorismo. Noi, da parte nostra, diciamo che nessun parte dovrebbe prendere di mira i civili” — servono a mantenere i collegamenti e a differenziare la propria posizione.

Anche nell’ottica di giocare un ruolo di mediazione. Il Qatar potrebbe presto incassare il risultato delle negoziazioni per il rilascio di 50 prigionieri con doppia cittadinanza rapiti nell’attacco dal gruppo palestinese. L’Egitto sta mediando con la Comunità internazionale l’arrivo degli aiuti umanitari a Gaza assediata. È anche davanti a questo che la Turchia vuole un ruolo, che a quanto pare si sta giocando nelle comunicazioni con l’Iran — player problematico sulla questione azero-armena — e con il Libano, per scongiurare contagi regionali della crisi. Il presidente e il ministro degli Esteri turco hanno parlato al telefono con le loro controparti iraniane e Fidan ha tenuto colloqui in Libano martedì scorso.

La lezione ucraina

Come nella guerra russa contro l’Ucraina e nella crisi del corridoio del grano collegato, Erdogan ha abilmente usato i contesti per proiettare un’immagine da leader diplomatico nell’arena internazionale e aumentare la standing del suo Paese. Parlando ai giornalisti all’inizio di questa settimana, Fidan ha addirittura proposto Ankara alla guida di un sistema di garanti su una pacificazione israelo-palestinese (per quanto per ora improbabile). La Turchia sarebbe mallevadore della parte palestinese, vantando rapporti con Israele che in questo momento sono migliorati soprattutto sul piano della sicurezza (nell’ottica comune del contenimento iraniano).

La linea del governo Erdogan riguardo alla questione palestinese può essere attribuita a diverse ragioni. Prima di tutto, c’è stata una diminuzione del valore politico interno della “causa”, perché è aumentata la contrarietà popolare verso gruppi islamisti, in parte a causa dei conflitti in Siria e Iraq. Poi c’è la necessità di essere parte della geopolitica energetica nel Mediterraneo orientale, dove si richiedono relazioni positive con Israele. Inoltre, l’atteggiamento della Turchia nei Paesi arabi è cambiato drasticamente, e le divisioni sono state ormai riconciliate — sotto la necessità di avere sponde per far ripartire l’economia. Infine, la decisione strategica di ristabilire rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea richiede una riconsiderazione dell’atteggiamento turco nel Medio Oriente. La Turchia cerca di sfruttare il ruolo di mediatore, imparando anche dalle lezioni apprese dalla guerra in Ucraina.



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