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Perché l’Occidente non può permettersi un flop del summit Ue-Usa

Von der Leyen e Michel incontrano Biden. Sul tavolo ci sono un club per acciaio e alluminio e un accordo sui materiali critici per far accedere gli europei ai sussidi dell’Inflation Reduction Act, con un contorno di allineamento contro la Cina. Ma le differenze e le resistenze di alcune cancellerie del Vecchio continente stanno ostacolando la creazione di un fronte comune

Non fosse per la crisi in Medio Oriente, probabilmente l’evento clou della settimana sarebbe stato il summit a Washington tra il presidente statunitense Joe Biden da una parte e Ursula von der Leyen Charles Michel, presidenti rispettivamente della Commissione europea e del Consiglio europeo, dall’altra. Il summit, in programma da tempo, avrebbe dovuto rappresentare il culmine di un anno di duro lavoro per allineare politiche economiche e ambientali, sotterrare definitivamente un conflitto commerciale e rinsaldare il fronte contro il rivale cinese. Tuttavia, le prospettive sono tutt’altro che rosee. Se da una parte il conflitto Israele-Hamas ha assorbito l’attenzione dei media e dei leader (che dovranno concentrarsi sul presentare un fronte comune su Israele e Ucraina), dall’altra pare che i risultati previsti non arriveranno per mancanza di un accordo. Questo è quanto si aspetta una serie di testate prestigiose (Politico, Bloomberg, New York Times, Financial Times) alla vigilia dell’incontro, che avverrà in serata, ora italiana: Unione europea e Stati Uniti non riusciranno a finalizzare l’intesa per costituire un “club” globale per l’acciaio e l’alluminio sostenibile.

CONVERGENZA, COMMERCIALE E POLITICA

Il progetto, unico nel suo genere, avrebbe coniugato la spinta per decarbonizzare due tra le industrie più inquinanti e proteggere i produttori dal dumping ambientale con la necessità di rendere più resilienti le supply chain (attraverso il friend-shoring) e affrontare le pratiche cinesi di distorsione del mercato. Non solo: questo accordo avrebbe chiuso la questione irrisolta dei dazi su acciaio e alluminio, retaggio della guerra commerciale Ue-Usa di trumpiana memoria, e aperto la strada per un patto sui materiali critici, necessario, a sua volta, per risolvere il conflitto sull’Inflation Reduction Act ed estendere i sussidi Usa per le auto elettriche anche ai produttori europei.

IL RIPENSAMENTO STRATEGICO…

In linea teorica, questi accordi sarebbero il risultato naturale di una più ampia convergenza tra Ue e Usa, da leggere nell’ottica di una rivalità sistemica con la Cina, già declinata nel settore dei semiconduttori (dove l’Olanda si è allineata ai controlli sulle esportazioni statunitensi). In sintesi, sotto la guida di von der Leyen – e anche grazie alla “sveglia” sulle dipendenze data dal ricatto energetico del presidente russo Vladimir Putin nel 2022 –, l’Ue si è molto avvicinata alle posizioni statunitensi sulla necessità di proteggere la propria economia dai competitor. Anche a costo di mettere in discussione la fede europea nel libero mercato. È stata von der Leyen, che promise una Commissione più geopolitica all’inizio del suo mandato, a introdurre il concetto di de-risking invece del più duro (e più improbabile) decoupling, adottato anche negli States. È stata lei a presentare la nuova dottrina di sicurezza economica europea. È stata lei ad avviare due indagini anti-dumping sulla Cina, segnatamente sulle sue auto elettriche e il suo acciaio, a poche settimane dal summit con Biden. Ed è stata la sua Commissione ad avviare dialoghi strutturati su commercio e tecnologia con Usa e India e indicare quali tecnologie “sensibili” vanno protette da attori come la Cina.

… E I TASSELLI MANCANTI

Sembra che tutto questo non sia bastato a colmare definitivamente la distanza tra Ue e Usa in materia di decarbonizzazione, sicurezza economica e rapporto con la Cina. E le responsabilità sono condivise, scrive Noah Barkin (visiting senior fellow del German Marshall Fund) su Foreign Policy. Da parte americana, pur dimostrandosi più attento al rapporto con gli alleati europei rispetto all’ex presidente Donald Trump, Biden e la sua amministrazione hanno privilegiato il quadrante indopacifico – con l’alleanza Aukus sui sottomarini nucleari, l’accordo di Camp David tra Corea del Sud e Giappone, l’intesa su difesa e tecnologia con l’India – e non hanno tenuto nella dovuta considerazione i Paesi dell’Ue scrivendo misure come l’Ira. Da parte europea, invece, la mancanza di un’intesa comune sul ruolo dell’Ue nel mondo rimane il grande irrisolto – nonché ciò che ha impedito la creazione di una posizione comune su acciaio, alluminio e materie critiche. Manca ancora un consenso sulle linee guida per la relazione economica con la Cina, cosa che lascia Bruxelles “reattiva, sulla difensiva e incapace di parlare con Washington ad armi pari sulle sfide commerciali e tecnologiche che stanno più a cuore agli Usa. Von der Leyen sta cercando di correggere questa situazione, ma sta incontrando una forte resistenza”, ha spiegato l’esperto.

OGNI CAPITALE PER SÉ

Il fatto che la “locomotiva europea” non segua la linea von der Leyen è una parabola per le difficoltà europee nel convergere su posizioni comuni. “Né il cancelliere tedesco Olaf Scholz né il presidente francese Emmanuel Macron sembrano pronti a salire sul carro di von der Leyen” e che entrambi “si stanno opponendo ai principi fondamentali della sua strategia di de-risking, in particolare ai suoi piani per limitare gli investimenti delle imprese europee in Cina” nel campo delle tecnologie sensibili, scrive l’esperto del Gmf. La Germania rimane legata a doppio filo con la Cina attraverso una serie di industrie, soprattutto quella dell’auto, e sta trascinando i piedi per le mosse della Commissione che rischiano di irritare il partner cinese. Mentre la Francia, ancora scottata dallo smacco di Aukus (che al tempo fece saltare le sue commesse di sottomarini per l’Australia e la sua strategia indopacifica), aveva evidenziato la sua irritazione quando la presidente della Commissione, da Washington, si era impegnata a intervenire sulle politiche di controllo delle esportazioni europee. “Sembra credere di avere poteri che non ha”, ha detto un alto funzionario del governo francese a Barkin. La tendenza non è limitata a Berlino e Parigi (basti pensare a quanto strida la posizione europea sull’Ucraina con la stretta di mano tra il premier ungherese Viktor Orban e Putin, ospiti al Forum della Via della Seta a Pechino). In sostanza, le capitali europee preferiscono conservare il diritto di tracciare il proprio percorso per la politica economica. Che sarebbe una linea irreprensibile, se solo non si collocasse in un’epoca di mercato unico europeo, competizione tra superpotenze e securitizzazione dei legami commerciali.

E ORA?

Secondo Politico, Biden e von der Leyen sono pronti ad annunciare “progressi significativi” nei colloqui e sperano di raggiungere un accordo entro la fine dell’anno, quando i dazi statunitensi su acciaio e alluminio europei rientreranno in vigore in assenza di un’intesa. E la situazione è preoccupante per quanto riguarda lo sviluppo di una risposta efficace all’assertività crescente di Pechino. “Se gli Usa e l’Ue non riescono a sviluppare risposte comuni alle sfide poste dalla Cina, è probabile che le tensioni transatlantiche aumentino nel tempo”, è la diagnosi di Barkin. Guardando al futuro, la cosa si fa “inquietante se si considera che Biden potrebbe essere l’ultimo presidente americano per il quale le relazioni transatlantiche sono una priorità assoluta”. Gli europei hanno ragione a preoccuparsi della possibilità che Trump torni alla Casa Bianca nel 2025, scrive Barkin, perché “soffrirebbero più di altri in uno scenario simile. Ma non dovrebbero usare lo spettro di Trump come scusa per non fare passi avanti con l’amministrazione Biden. Cosa vuole fare l’Europa con Biden se vince un secondo mandato? Questa è la domanda a cui l’Europa deve rispondere. Il tempo stringe”.

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