Per la Repubblica Popolare Cinese che si avvia ad un riavvicinamento diplomatico con gli Usa, il “dossier filippino” rappresenta il freno d’emergenza per sfilarsi da situazioni difficili e per limitare la libertà di manovra di Washington
Il meeting tra il leader cinese Xi Jinping e il presidente americano Joe Biden a margine dell’Asia-Pacific Economic Cooperation Summit simboleggia appieno le speranze di un più generale processo di comunicazione tra Pechino e Washington, speranze alimentate anche dalla ripresa del dialogo sull’arms control nucleare. Ma Pechino intende arrivare mostrando insieme apertura e ostilità, evitando di correre il rischio di vedersi limitata la libertà d’azione sul piano globale e marcando il perimetro di determinati interessi. La strategia di Xi consiste nell’avere un “contrappeso” da tirare in ballo per evitare di rimanere invischiato nel processo di distensione, leva d’emergenza che sembra aver scritto “Filippine”.
È possibile che le tensioni in corso nel Mar Cinese con Manila possano essere state aizzate da Pechino al fine di auto-sabotare un’eccessiva apertura a Washington? Per la Cina, la rinnovata (e rinvigorita) partnership tra Stati Uniti e Filippine è la dimostrazione che gli Usa hanno non solo capacità operativa militare nel bacino pacifico (e indo-panfilio), ma anche strumenti per muovere influenza in generale nella regione. L’uso del dossier filippino in termini anti-Usa è efficace per la Cina.
Le tensioni tra Pechino e Manila sono d’altronde ben note. La Repubblica Popolare Cinese reclama la sovranità sull’arcipelago delle isole Spratly, controllate dalle Filippine, e ha avviato da tempo una serie di azioni ostili volte a costringere lo stato insulare a cedere il controllo di queste terre emerse. Simili azioni si concentrano in particolare attorno al Second Thomas Shoal (noto in cinese come Renai Reef, e in filippino come Ayungin), un atollo delle Spratly su cui nel 1999 il governo filippino ha deciso di fare arenare la corazzata americana della seconda guerra mondiale Uss Sierra Madre per rafforzare la propria posizione militare e cercare di esercitare deterrenza verso la Repubblica Popolare.
Con risultati relativamente scarsi. Accanto alle pressanti richieste rivolte a Manila di rimuovere la nave da guerra e di rinunciare al proprio controllo sulle Spratly, Pechino ha avviato una serie di operazioni di “costrizione” (in palese violazione del diritto internazionale) volte impedire il rifornimento del caposaldo filippino, e di forzare così la mano all’ex-colonia spagnola. Speronamenti, collocamento di barriere artificiali, uso di cannoni ad acqua e di laser militari sono soltanto alcuni esempi delle tattiche impiegate dalle navi di Pechino durante gli ultimi mesi, in manovre rischiose che hanno già causato alcune vittime.
Ma le Filippine sono ormai tra i più stretti alleati di Washington nell’Indo Pacifico, alleanza che è stata formalizzata dall’accordo di mutua difesa stilato nel 1951 e rafforzata dall’Enhanced Cooperation Agreement del 2014. Le basi americane in territorio filippino sono fondamentali per la proiezione della potenza militare statunitense nella regione, e il dispiegamento di asset del calibro degli F-22 Raptor ne è solo l’ennesima conferma. E con l’accrescersi delle minacce cinesi è aumentato proporzionalmente anche il commitment signalling da parte statunitense nei confronti del proprio alleato, tramite la fornitura di sistemi d’arma avanzati e la partecipazione a esercitazioni congiunte di un’estensione mai registrata sino ad ora.
È in corso una dinamica che Pechino intende adesso sfruttare per modulare il proprio rapprochement diplomatico con la potenza che sta dall’altra parte dell’Oceano Pacifico. Xi non vuole che la sua “preparazione” sia ostacolata da un approccio troppo ostile di Washington, ma allo stesso tempo non vuole trovarsi aggrovigliato in situazioni da cui potrebbe difficilmente districarsi una volta che sarà giunto il momento adatto. Il dossier filippino diventa un guardrail tagliente delle relazioni tra le due potenze.