Asia Nikkei dedica un lungo approfondimento ai porti europei e agli investimenti che la Cina gli ha dedicato. Per la rivista economica nipponica il rischio è che Pechino possa utilizzarli come leve contro i progetti alternativi a alla Bri, come Imec
“L’Europa cerca alternative alla Belt & Road Initiative”, è l’oggetto della newsletter quotidiana dell’Asia Nikkei, la più letta pubblicazione economico-finanziaria al mondo, che dedica particolare attenzione all’Italia e alla decisione di non rinnovare l’adesione all’infrastruttura geopolitica cinese e di guardare con massima attenzione a iniziative alternative: prima fra tutte l’Imec. Il corridoio di connessioni tra India, Medio Oriente ed Europa si porta dietro un concetto geostrategico cruciale per Roma: l’Indo Mediterraneo. È in questa dimensione che l’Italia trova spazi per la propria proiezione geopolitica, lungo le interconnessioni tra Mediterraneo allargato e Indo Pacifico. Un costrutto dove si muovono passato, presente e futuro della politica internazionale della Penisola.
Da tempo, in Italia e in molte parti d’Europa, sta crescendo l’inquietudine nei confronti della Belt and Road Initiative (Bri) a causa di preoccupazioni legate alla sicurezza e al senso di mancato adempimento delle promesse economiche fatte da Pechino. Probabilmente non è un caso di sovrapposizione di agende se poco dopo che la Cina ha festeggiato a Pechino il decimo anniversario di quella che viene spesso definita “l’iniziativa faro” del leader Xi Jinping, l’Ue ha organizzato il Global Gateway Forum, con l’obiettivo di promuovere gli investimenti sostenibili nelle infrastrutture a marchio europeo. In questa prospettiva, l’Unione sta sostenendo il progetto Imec, che è stato proposto al vertice del G20 a Nuova Delhi a settembre. Progetto che resta attivo nonostante le difficoltà legate all’esplosione della crisi attorno a Israele.
Ma se il perno israeliano è il problema securitario e politico di livello tattico, sul piano strategico Imec ha una criticità, nota la Nikkei: quanto una presunta controparte della Bri potrebbe fare affidamento sui porti in cui la Cina ha una percentuale di azionariato importante? Secondo il memorandum d’intesa firmato dai partecipanti al Corridoio i lineamenti di connessioni saranno uno dall’India al Golfo Arabico e un altro dal Golfo all’Europa. Questo includerà una ferrovia che, una volta completata, fornirà “una rete di transito transfrontaliero nave-rotaia affidabile ed economicamente vantaggiosa per integrare le rotte di trasporto marittime e stradali esistenti.
Il Parlamento europeo ha rapidamente valutato come “rischi non sufficientemente compresi” per l’Europa il coinvolgimento cinese nei porti – come il Pireo o Amburgo. L’analisi, fornita in un report non vincolante, suggerisce che gli investimenti portuali fanno parte di una strategia deliberata di Pechino per acquisire beni che potrebbe sfruttare in scenari di conflitto, compreso quello su Taiwan. Una sorta di leva che potrebbe finire utilizzata anche davanti alla crescita di importanza di Imec. Un problema interno all’Ue (e non solo) su cui si alza da anni l’attenzione, e l’Ue sta pensando a una European Ports Strategy.
Kung Chan, fondatore del think tank Anbound con sede a Pechino, ha spiegato alla Nikkei un elemento molto importante: l’inamovibilità dei porti smorza qualsiasi valore strategico per la Cina, perché “in caso di guerra, questi beni verrebbero immediatamente sequestrati, come accade oggi con i beni russi nel mondo”. La Cina respinge abitualmente l’idea che i progetti della Bri possano comportare dei rischi e siano delle penetrazioni di carattere strategico.
Tuttavia, se di de-risking si intende parlare, allora va messa la questione dei porti in testa alle priorità, perché la soluzione nel caso di stato di guerra è una dimensione parossistica e limitante. Anche perché, in un rapporto sulla Belt and Road pubblicato dal Consiglio di Stato cinese in data 11 ottobre, viene celebrato il “costante miglioramento della connettività marittima” nella Bri. “Vado Gateway è diventato il primo terminal semiautomatico operativo in Italia”, scrive il Partito/Stato a proposito dello scalo di Vado Ligure.
Il problema non riguarda i singoli investimenti, anche utili in casi specifici, ma la ragnatela infratturale che essi compongono. È un’operazione strategica come noto, che ora – davanti alla necessità di abbassare i rischi connessi all’eccessiva esposizione cinese – emerge. Anche perché le aziende che investono non sono mai realmente indipendenti, ma sempre collegate in qualche modo al Partito Comunista Cinese. Anche perché, ancora, a certi investimenti si sono unite promesse su maggiori scambi commerciali che i collegamenti avrebbero garantito.
“Centinaia di anni fa, la Via della Seta ha dato impulso al commercio globale”, ha detto Narendra Modi, il primo ministro indiano, inaugurando, il 17 ottobre, il Global Maritime India Summit di Mumbai: “Ora questo corridoio storico [Imec] trasformerà anche il quadro del commercio regionale e globale”.
La convinzione indiana è fondamentale per il successo del progetto Imec, perché l’India è l’unico Paese che può bilanciare – per demografia e potenziale sviluppo – la Cina, visto che gli Stati Uniti (co-firmatari di Imec) restano distanti dal quadro geostrategico, sebbene potrebbero utilizzare le rotte del corridoio per far viaggiare i propri scambi nella macro-regione indo-mediterranea.
Già dalle prime fasi della crisi mediorientale scatenata dal sanguinario attacco di Hamas contro Israele, il 7 ottobre, la Cina ha subito cercato di sfruttare la situazione a proprio interesse, anche riguardo all’Imec. “Con o senza conflitto israelo-palestinese, l’Imec è solo un castello in aria”, scriveva il Global Times nello stesso giorno in cui il Partito/Stato diffondeva i dati sul miglioramento della connettività marittima cinese grazie alla Bri – e non è un caso, la comunicazione di Pechino è coordinata.
Il porto israeliano di Haifa è considerato il collegamento tra la rotta orientale dell’Imec, dall’India al Golfo Persico, e la rotta settentrionale verso l’Europa. Il gruppo indiano Adani possiede una quota di maggioranza del più grande terminal in acque profonde di Haifa. Proprio di fronte all’acqua si trova un terminal ad alta tecnologia inaugurato nel 2021, chiamato Haifa Bayport. “L’operatore?”, chiede ironicamente la Nikkei. Risposta: il gruppo cinese Shanghai International Ports Group, che ha un contratto di 25 anni.