La decisione del cda di Tim è un segnale del superamento della demonizzazione del privato e di dieci anni di cultura antindustriale, che non solo hanno contratto all’inverosimile gli investimenti privati, ma hanno rischiato di compromettere la reputazione internazionale del Paese. L’intervento di Stefano Cianciotta, amministratore delegato Finanziaria Regione Abruzzo e presidente Osservatorio Infrastrutture Confassociazioni
Se occorre una valutazione di merito per giudicare il sì del cda di Tim all’Opa lanciata dal Fondo Kkr, questa analisi deve partire da un assunto incontrovertibile: non si poteva giudicare prima e non lo si può certamente fare adesso attraverso la fobia dello straniero.
Lo spettro del timore nei confronti di investitori provenienti da altri Paesi, che in questi due anni è stato il leit motive di chi era contrario all’operazione, è invece utile ad evidenziare ancora una volta il provincialismo del capitalismo italiano, che per evitare il confronto con il mercato vuole mantenere privilegi che non ci sono più.
In questo caso si tratta di un fondo che gestisce in infrastrutture 400 miliardi di dollari, e in un Paese che a causa del Nimby, procedure farraginose e scarsa attitudine alla programmazione degli enti locali ha vanificato negli ultimi venti anni qualcosa come 20 miliardi di investimenti stranieri all’anno nelle infrastrutture, l’interessamento del Fondo americano era certamente una di quelle notizie destinate a cambiare il corso degli eventi.
Due anni fa Claudio Cerasa nel suo editoriale su Il Foglio a commento dell’Opa aveva definito “Capitali coraggiosi” quelli di Kkr, facendo tornare alla mente di ognuno di noi il “coraggio” di chi invece in passato aveva sostenuto operazioni di questo tenore in prevalenza con capitale pubblico.
L’offerta del Fondo americano invece ha evidenziato alcuni aspetti fondamentali per scrivere il futuro del Paese, che ha bisogno di tornare a dare segnali forti agli investitori privati.
L’acquisizione di Tim da parte di Kkr ribadisce nei fatti la collocazione atlantica dell’Italia, un tema sul quale Mario Draghi prima e oggi Giorgia Meloni sono stati chiari e lungimiranti fin dall’inizio del loro insediamento.
La decisione del cda di Tim, poi, è un ulteriore segnale del superamento della demonizzazione del privato e di dieci anni di cultura antindustriale, che non solo hanno contratto all’inverosimile gli investimenti privati, ma hanno rischiato di compromettere la reputazione internazionale del Paese.
Al contrario, invece, come dimostrano anche gli interessi dei Fondi immobiliari, nel mondo c’è voglia di Made in Italy.
Sostenere il privato significa dare anche una forte evidenza al contributo potenziale degli investitori nella attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’Italia, infatti, non può rinunciare all’intervento del privato, che è fondamentale, come abbiamo visto ad esempio nell’attuazione del Reddito di cittadinanza, che senza le Agenzie per il Lavoro è stata una misura fallimentare.
Ecco perché il via libera del cda di Tim all’Opa del Fondo Kkr è un’eccellente notizia per quell’Italia che vuole la concorrenza e sul mercato non ha paura di sfidare il sistema della competizione globale.