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Xi stringe ancora la morsa sulla finanza. Il paradosso del summit Cina-Ue

Nelle stesse ore in cui il leader cinese ha incontrato Ursula von der Leyen, predicando un rafforzamento delle relazioni con l’Europa, il Partito comunista cinese mette a punto un nuovo vademecum per una finanza con caratteristiche cinesi (e in mano a Xi). Mossa che potrebbe non arrestare la fuga di investitori

Chissà cosa avrà pensato Xi Jinping quando, nelle dichiarazioni al termine del summit tra Europa e Cina, con Ursula von der Leyen da una parte e Charles Michel dall’altra, ha auspicato una maggior sinergia e collaborazione tra il principale mercato libero del mondo (quasi mezzo miliardo di persone) e la seconda economia globale. Forse dimenticava la profonda crisi in cui versa il Dragone, assediato dai gravi e atavici problemi del comparto immobiliare e da una fiducia degli investitori esteri in via di evaporazione?

È in corso una fuga in piena regola dalla Cina, che corrisponde a una perdita di credibilità conclamata, costata a Pechino il downgrade di Moody’s, che ha un’origine precisa: l’eccessiva ingerenza dello Stato nell’economia. Aspetto che mal si concilia a una maggior sinergia e collaborazione con l’Ue.

E allora, come si può chiedere ai capitali dell’Occidente di mettere un piede, o anche due, in Cina, se il Partito/Stati non molla la presa su fondi, assicurazioni, banche e partecipate? Anzi, all’opposto di allentare, la morsa la stringe. Nelle stesse ore in cui l’Italia ufficializzava il suo addio alla Via della Seta, madre di tutti i progetti di sviluppo e crescita cinesi, ma dalla natura finanziaria decisamente opaca, a Pechino che prendeva forma un documento del Politburo che impone nuova obbedienza della finanza ai canoni del Partito.

In Cina la chiamano dichiarazione ideologica, pubblicata su Qiushi, bimestrale di teoria politica edito dal Comitato centrale del Partito Comunista Cinese, in cui è messo nero su bianco che banche, fondi pensione, assicuratori e altre organizzazioni finanziarie in Cina devono seguire senza remore i principi marxisti e prestare massima obbedienza al leader Xi Jinping. Un documento, riportano alcune indiscrezioni raccolte dal New York Times, che ha spaventato non poco i banchieri e i fondi internazionali, che già stanno assistendo impotenti al deflusso dei capitali e alla progressiva perdita di fiducia della stessa economia cinese. Inoltre, e non sarebbe la prima volta, la mossa appare poco strategica.

In un frangente in cui la Cina perde terreno, gli investitori fanno i bagagli, e Xi lancia appelli alla collaborazione e al rafforzamento delle relazioni bilaterali, il Partito stringe ancora la morsa. Barry Naughton, economista dell’Università della California, che ha studiato a lungo la transizione della Cina verso un’economia di mercato, ha affermato che il documento pone le basi affinché il settore finanziario sia soggetto a una supervisione sempre più severa e costretto a servire le politiche governative in modo più attivo.

“Non ci si aspetta che il settore finanziario spinga per riforme orientate al mercato o addirittura massimizzi necessariamente i profitti”, ha affermato. “Come programma per la finanza, è ambizioso, deludente e alquanto inquietante”. Chissà se è un caso che Citibank abbia annunciato il 9 ottobre la vendita della sua attività di gestione patrimoniale dei consumatori nella Cina continentale a Hsbc. Moody’s, nel declassare il Dragone, lo ha detto in modo esplicito: l’utilizzo da parte di Pechino di stimoli fiscali per sostenere i governi locali e le aziende statali sta comportando rischi al ribasso per l’economia della nazione.

Ossia, al di là degli slanci di Xi, lo Stato e il suo leader iniziano a pesare eccessivamente sull’economia?


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