Considerate le condizioni e le divergenze, le conclusioni finali della Conferenza sul clima sono il massimo in cui si potesse sperare. La vaghezza dei termini lascia spazio di manovra, ma la marcia è innestata e i risultati indicano la direzione: avanti su metano, rinnovabili e Sud globale. Il direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei tira le fila delle due settimane di negoziati
Fumata bianca alla Cop28 di Dubai: mercoledì le quasi 200 nazioni che prendevano parte alla Conferenza Onu sul clima hanno votato le conclusioni all’unanimità. Le aspettative erano basse, vista la vigorosa opposizione dei Paesi produttori di petrolio, ma alla fine dei giochi il testo finale contiene un riferimento esplicito alla volontà di operare una “transizione dai combustibili fossili, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere [zero emissioni nette] entro il 2050 in linea con la scienza”.
È un chiaro salto in avanti rispetto alla Cop26 di Glasgow, quando si parlava solo di riduzione del carbone. Ma non è la chiamata all’eliminazione delle fonti fossili in cui speravano Ue, Usa e parecchi Stati particolarmente esposti agli effetti del riscaldamento globale: il testo è cosparso di condizionali e manca di termini precisi per completare la transizione dagli idrocarburi. “Il succo della questione è che abbiamo deciso che le fonti fossili vanno ridotte, e molto. Ma non c’è scritto quando, quanto, chi, in che tempi”, ha riassunto il direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei Alessandro Lanza.
Il suo bilancio finale, maturato dopo aver partecipato all’intero ciclo di lavori negli Emirati, è che questa conclusione sia essenzialmente il massimo in cui si potesse sperare – preso atto del fatto che fosse impossibile la convergenza tra chi spingeva per decretare la fine degli idrocarburi e chi li produce. L’unico modo per non tornare a casa a mani vuote era il ricorso all’“ambiguità costruttiva”: parlare del tramonto definitivo di petrolio e gas non era possibile né per i produttori, né per i Paesi in via di sviluppo, dunque si è arrivati alla formula intermedia della transizione, ha spiegato l’esperto.
La Cop emiratina è stata la prima in cui le compagnie nazionali petrolifere, proiezione dei loro Stati, sono diventate esplicitamente parte del processo di negoziazione. È anche per gli sforzi dell’Opec che le definizioni del documento finale sono volutamente vaghe e lasciano ampio spazio di manovra da qui al 2050. “Gli ultra-ambientalisti non saranno contenti, ma non lo saranno nemmeno i negazionisti del cambiamento climatico per cui la transizione è solo un peso sulle finanze pubbliche”, ha sottolineato Lanza, registrando il risvolto ottimista di questa vaghezza: ossia che le decisioni del futuro potranno tener conto delle nuove tecnologie.
Per la prima volta nella storia della Cop è comparsa la parola “nucleare” tra le soluzioni per decarbonizzare. Un inserimento che l’esperto Feem ha definito “importante: se uno ha a cuore il tema del cambiamento climatico non può escludere dal ragionamento il nucleare, perché al netto delle questioni di sicurezza e di gestione delle scorie rimane una fonte che produce energia elettrica e carbon free”. Ma la speranza rimane quella della fusione, che può diventare la vera svolta, ha continuato, ricordando l’impegno italiano non solo negli esperimenti statunitensi di Cfs (via Eni) ma anche nel nuovo reattore sperimentale giapponese (via Enea).
Nel mentre, anche dalla Cop28 sono usciti risultati importanti: l’impegno a triplicare la capacità di generare energia rinnovabile e raddoppiare l’efficienza energetica al 2030, campi in cui l’Europa “sta già facendo molto” – anche per alleggerire il peso delle importazioni di idrocarburi. Sul lato della riduzione, uno dei dibattiti più centrali (e uno tra gli impegni più ambiziosi) è stato quello sul metano, ambito in cui “bisogna evitare il flaring, abolire il venting e sistemare le perdite dei metanodotti”, oltre a lavorare sull’agricoltura e la zootecnica, per assicurarsi di tenere gli obiettivi climatici a portata.
Sono arrivati risultati anche sul versante del cosiddetto Sud globale – un termine-ombrello per descrivere Paesi con esigenze molto diverse, ha chiosato Lanza. In alcuni Paesi dell’Africa subsahariana l’aspettativa di vita si attesta sui 35 anni; c’entra anche la povertà energetica, emergenza per cui la soluzione più immediata, spesso, sono ancora gli idrocarburi, ha ricordato. E in queste aree l’aumento previsto di 2° della temperatura terrestre si traduce in un’oscillazione di 6° e la distruzione dei presupposti per la sopravvivenza.
È questo genere di Paesi a cui quelli più avanzati hanno riservato il primo fondo loss and damage per compensare i danni del cambiamento climatico – uno sforzo “diverso dai tentativi precedenti per dimensioni e impegno”. E sempre per loro i partecipanti hanno consolidato la prospettiva di investimenti sulla scia dell’impegno ad aumentare la generazione di energia rinnovabile. Come ha sottolineato il presidente emiratino della Cop28 Sultan Al Jaber, adesso la sfida sarà l’implementazione: per l’Italia, che a Dubai ha dedicato il 70% del suo Climate Fund all’Africa, il processo in divenire porta il nome di Enrico Mattei.