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Minerali critici, così la Norvegia apre la nuova frontiera dell’estrazione oceanica

Il Parlamento norvegese ha dato il via libera per la concessione delle licenze alle compagnie interessate allo sfruttamento dei fondali oceanici. Una proposta del governo, che vuole posizionare il paese al centro della corsa ai minerali e metalli necessari per la decarbonizzazione. Sarebbe un primo, importante precedente in una pratica ritenuta controversa dalla comunità scientifica…

La Norvegia potrebbe diventare uno dei primi Paesi al mondo ad approvare la controversa pratica dell’estrazione dei minerali dai noduli polimetallici. Si tratta di concentrazioni di minerali e metalli presenti sui fondali marini e che rappresentano – insieme allo sfruttamento delle distese continentali ancora ricoperte dai ghiacci, come in Groenlandia – la nuova frontiera dell’estrazione.

In seguito ad un voto favorevole del Parlamento norvegese (80 a favore, 20 contro), i legislatori del Paese nordeuropeo dovrebbero approvare la proposta del governo di aprire le acque norvegesi all’estrazione mineraria in profondità su scala commerciale dopo che i piani del governo hanno ricevuto un sostegno trasversale alla fine dello scorso anno.

La proposta della Norvegia aprirebbe così la strada alle aziende interessate a richiedere licenze al governo (che verranno valutate caso per caso dal Parlamento) per attività di esplorazione ed estrazione di minerali critici nelle acque nazionali vicino all’arcipelago delle Svalbard, previa studi d’impatto ambientale. Si stima che l’area, che fa parte della piattaforma estesa del fondo marino norvegese, sia più grande del Regno Unito.

All’inizio del 2023, la Norwegian Offshore Directorate, il dipartimento del Ministero del Petrolio e dell’Energia, ha pubblicato un rapporto in cui si concludeva che sul fondale marino a largo delle coste norvegesi fossero presenti “ingenti risorse”, tra cui minerali come rame, zinco e cobalto. A giugno, il governo di minoranza della coalizione guidata dai laburisti ha proposto di autorizzare lo sfruttamento dei fondali marini del Paese nella regione artica, mentre lo scorso dicembre un accordo con i partiti dell’opposizione è stato raggiunto per assicurarsi il nulla osta legislativo.

Amund Vik, segretario di Stato del Ministero che ha commissionato il rapporto, aveva dichiarato al Financial Times che l’estrazione in acque profonde aiuterebbe l’Europa a soddisfare il “disperato bisogno di più minerali, materiali di terre rare per realizzare la transizione”. Un riferimento non troppo implicito ai rischi della dipendenza dell’UE dalla Cina per il proprio fabbisogno di materie prime critiche.

“Abbiamo bisogno di minerali perché vogliamo guidare una transizione verde sotto forma di celle a combustibile e pannelli solari, auto elettriche e telefoni cellulari”, ha dichiarato in una conferenza stampa la deputata laburista Marianne Sivertsen Naess.

La Norvegia ha in programma di aprire i circa 280.000 chilometri quadrati della piattaforma estera per l’esplorazione. L’estrazione avverrà solo con l’approvazione del Parlamento, come avviene attualmente per il petrolio e il gas di cui il paese nordico è tra i principali produttori occidentali.

L’approvazione dell’estrazione in acque profonde metterebbe la Norvegia in contrasto con il Regno Unito e la Commissione europea, che hanno spinto per un divieto temporaneo a causa di preoccupazioni ambientali sollevate da numerose organizzazioni internazionali e ONGs. Il dibattito è aperto e riguarda, nello specifico, il complesso trade-off tra rischi e benefici.

La Norvegia ha formalizzato una volontà politica che riflette un interesse crescente verso questa nuova frontiera dell’estrazione. Infatti, un numero crescente di Paesi ed aziende – ad oggi, 22 contraenti tra attori statali e privati – sono titolari di contratti di esplorazione mineraria per la ricerca di noduli, solfuri polimetallici e giacimenti di ferromanganese che sono estremamente ricchi di minerali critici come cobalto, rame e manganese, secondo i dati dell’International Seabed Authority (ISA) nel 2023.

Si tratta di un organismo intergovernativo composto da 167 Stati membri e dall’Unione Europea, istituito in base alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare (UNCLOS). L’ISA ha il diritto esclusivo di rilasciare contratti di esplorazione e sfruttamento di minerali nei fondali marini internazionali, ma è anche tenuta a garantire la protezione dell’ambiente marino dai potenziali impatti nocivi delle attività in profondità. Mentre l’ISA ha sviluppato un’intensa produzione normativa per disciplinare le attività di prospezione ed esplorazione dei minerali, sta ancora lavorando ad un codice minerario più completo che copra lo sfruttamento su scala commerciale di queste risorse.

Secondo alcune stime, fino a 38 milioni di chilometri quadrati di fondali oceanici sarebbero ricchi di cobalto, nichel, manganese e rame. Un’area più grande della stessa Russia. Lo US Geological Survey ha stimato che queste profondità marina contengano più di questi minerali e metalli che tutti i giacimenti terrestri messi insieme.

Tuttavia, si tratta di aree del pianeta che non sono soggette – con l’eccezione delle zone sotto la giurisdizione nazionale, come le acque territoriali e delle Zone Economiche Speciali – alla sovranità statale, ma regolate da un accordo internazionale, l’UNCLOS, e attuato dall’ISA (seppur vi siano dubbi sull’ingerenza e influenza di Pechino secondo alcuni analisti). Questo regime speciale ha sostanzialmente preservato e prevenuto attività di estrazione per oltre vent’anni, prima che venissero accordate le prime licenze di esplorazione.

Tra le società attive, The Metals Company (TMC) una compagnia fondata nel 2021 e con sede a Vancouver, in Canada, impegnata in attività esplorative nell’Oceano Pacifico tra il Messico e le isole Hawaii. La società si concentra sulla raccolta, lavorazione e raffinazione di noduli polimetallici recuperati dai fondali oceanici della Clarion Clipperton Zone (CCZ) a sud-ovest di San Diego, in California. La società, con una capitalizzazione di mercato di 401 milioni di dollari, ha registrato una perdita di 171 milioni di dollari nell’ultimo esercizio finanziario e una perdita di 136 milioni di dollari nell’ultimo anno. La zona di Clarion-Clipperton avrebbe un grande potenziale per l’estrazione di manganese, nichel, cobalto e terre rare. Altre società con permessi di esplorazione sono la russa JSC Yuzhmorgeologiya, Blue Minerals Jamaica, China Minmetals e Marawa Research and Exploration di Kiribati.

Quello che risulta evidente è la natura estremamente rischiosa di queste imprese commerciali: da una parte, l’assenza di un assetto giuridico chiaro, oltre alle possibili controversie internazionali che potrebbero emergere nel tentativo di rivendicare queste risorse. Dall’altra, l’aspetto tecnologico e, di converso, economico dal momento che molte grandi aziende come BMW, Volkswagen, Google e Samsung (potenziali clienti) hanno espresso disappunto su questa tipologia di attività. Il distacco delle grandi multinazionali potrebbe dunque essere un freno agli investimenti in questa direzione. Sicuramente le società più attrezzate – per conoscenze geologiche, esperienza sulle piattaforme offshore e di gestione delle attività in concerto con le autorità pubbliche competenti – potrebbero essere le grandi compagnie dell’Oil&Gas. Come dimostrerebbe l’interesse norvegese.

Vi è poi la questione dell’innovazione. A parte il rame e le terre rare, nel medio lungo periodo la domanda di cobalto, nichel e manganese (specialmente per le batterie elettriche) potrebbe diminuire per l’affermazione di tecnologie alternative che impiegano materiali più abbondanti e accessibili, anche in termini di sostenibilità. Ed è proprio l’aspetto ambientale che divide maggiormente.

Vi sono due fazioni contrapposte nel dibattito internazionale sul tema. Da una parte, i sostenitori (come i privati) i quali affermano che l’estrazione di metalli e minerali dai fondali marini sia necessaria per facilitare la transizione globale dai combustibili fossili (aumentando l’offerta di materie prime critiche come rame, cobalto, manganese, terre rare, nichel la cui domanda è destinata ad esplodere entro il 2040 secondo le stime dell’International Energy Agency), aggiungendo che questa pratica è meno dannosa per l’ambiente rispetto all’estrazione terrestre.

Inoltre, viene spesso citato un trend storico per surrogare tale tesi: un declino ormai costante nella ricchezza e concentrazione di minerali nei depositi continentali, dopo più di centocinquanta anni di sfruttamento su scala globale. Un aspetto che spinge gli operatori a rallentare le attività per non esaurire i giacimenti, oltre a dover incorrere a maggiori costi nell’estrazione per ottenere lo stesso output a parità di investimenti.

I più critici, come gli ambientalisti di Greenpeace, affermano che l’estrazione a tali profondità è “estremamente distruttiva”, avvalendosi di alcuni studi scientifici che non escludono effetti irreparabili per l’ecosistema marino (seppur, allo stato dell’arte della conoscenza scientifica, è ancora difficile da prevedere quali possano essere gli impatti e i danni. La Environmental Justice Foundation, una ong internazionale, sostiene in questa direzione che i possibili benefici dell’estrazione in acque profonde “non superano i rischi ambientali ed economici”.

Si tratta, in un certo senso, di un dilemma che molti reputano inevitabile stante la crescente domanda di materie prime per la decarbonizzazione, la digitalizzazione e altri trend sistemici (come la crescita demografica ed economica dei paesi del sud-est asiatico, due processi che avranno certamente un impatto sul consumo globale di metalli non-ferrosi e materie prime critiche).

L’Agenzia norvegese per l’ambiente ha in precedenza criticato la valutazione d’impatto ambientale (EIA) del piano presentato dal governo, mentre 120 legislatori dell’Ue hanno scritto una lettera aperta a novembre del 2023 per chiedere al Parlamento del Paese di respingere il progetto. La lettera dei legislatori europei metteva in guardia sui rischi che la proposta comportava per la biodiversità marina, l’accelerazione dei cambiamenti climatici e le attività tradizionali, come la pesca.

In un’altra lettera aperta che chiedeva una sospensione delle possibili attività di estrazione in acque profonde, più di 800 esperti di scienze marine e di governance delle risorse di tutto il mondo hanno avvertito che si sa ancora molto poco degli habitat e della biodiversità delle profondità marine. Una zona d’ombra che è necessario chiarire per comprendere meglio i possibili impatti.

“L’importanza dell’oceano per il nostro pianeta e per le persone, e il rischio di una perdita permanente e su larga scala della biodiversità, degli ecosistemi e delle funzioni ecosistemiche, rendono necessaria una pausa di tutti gli sforzi per iniziare l’estrazione mineraria nelle profondità marine”, si legge nella lettera. Nel settembre del 2021, era stata la volta del Congresso dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura che aveva presentato una moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde.

La mossa della Norvegia evidenzia l’intensificarsi della contesa geopolitica per i materiali critici, e rappresenta un precedente che avrà riflessi sul dibattito e la governance dei beni comuni globali, comprese le attività di esplorazione ed estrazione che si svolgono nelle profondità marine.


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