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Minerali critici, luci e ombre nell’industria globale nel report Iea

L’Agenzia ha pubblicato il primo report di mercato dedicato alle materie prime critiche. Focus su litio, cobalto, nichel, grafite e rame. Aumentano gli investimenti nel settore minerario, ma il segmento della raffinazione rimane estremamente concentrato. Pochi passi verso la sostenibilità, mentre i rischi geopolitici sono dietro l’angolo

A poco meno di due anni dalla pubblicazione del suo primo Landmark Study, l’International Energy Agency (Iea) ha pubblicato, nella mattinata di ieri, la sua prima Market Review dedicata alle materie prime critiche per la transizione energetica. Un report che, al pari di quelli prodotti per il settore dell’oil&gas e delle rinnovabili, si presta a raccogliere i trend più significativi e le novità nel mercato alla luce degli scenari di decarbonizzazione più o meno stringenti.

Dal report del 2021, che aveva segnalato un crescente mismatch tra domanda e offerta di minerali critici, l’Agenzia si è posta l’obiettivo di monitorare quanto e come questa discrepanza sia cambiata nel corso dell’ultimo biennio. In un contesto di riferimento che ha visto da un lato la recrudescenza della pandemia sul funzionamento delle supply chain globali, dall’altro lo shock energetico e geopolitico provocato dall’invasione russa dell’Ucraina.

Due, tra i tanti fattori, che hanno portato significative risposte dai governi nazionali – che vedono con crescente preoccupazione, in termini di sicurezza e competitività dei rispettivi sistemi industriali, l’accesso alle materie prime critiche – con strategie e politiche mirate, e dalle stesse aziende coinvolte lungo la filiera, dalle miniere ai mercati. La Iea ha ricevuto il mandato dal G7, riunitosi ad Hiroshima, di monitorare lo sviluppo dell’industria, fornendo inoltre raccomandazioni per politiche di approvvigionamento sicuro e sostenibile.

Secondo l’analisi dell’Iea – che ha inaugurato un database online per monitorare la domanda di minerali critici sulla base degli scenari di decarbonizzazione elaborati – la domanda di litio, cobalto e nichel (tre materiali fondamentali per le batterie elettriche) è cresciuta rispettivamente di tre volte, del 70 e 40% tra il 2018 e il 2022, con una quota sempre più prevalente sul totale da parte delle tecnologie rinnovabili (fotovoltaico, eolico e appunto batterie per gli Ev). Oggi il solo mercato dei minerali critici vale 320 miliardi di dollari, il doppio rispetto a cinque anni fa anche grazie all’aumento dei prezzi, una cifra che si avvicina a quella del minerale di ferro e circa il doppio dell’alluminio.

In uno scenario allineato agli obiettivi di Net Zero a metà del secolo, già nel 2030 la domanda di minerali critici proveniente dal settore energetico potrà aumentare di 3,5 volte rispetto al 2021, con il 90% proveniente dalle tecnologie rinnovabili per il litio, il 45% per il rame, il 60% per il nichel e il 60% per il cobalto. Un aumento significativo, che porta a chiedersi se e come l’offerta potrà essere adeguata a supportare gli obiettivi di decarbonizzazione a livello mondiale.

Nel caso delle batterie elettriche (Ev e sistemi di accumulo domestico/industriale), sono ormai quotidiani gli annunci di nuove gigafactory e impianti di produzione di celle. L’Iea ha calcolato che, sulla base di quest’ultimi, entro il 2030 potrebbero essere dispiegata (GWh) una capacità totale in grado di soddisfare la domanda al 2030 in una traiettoria Net Zero. La crescita del mercato Ev – 14% di tutte le nuove auto vendute, con 10 milioni di unità nel 2022 – e il trend incoraggiante per gli accumuli suggeriscono ulteriori investimenti in questa direzione. Ma se da un lato l’interesse degli investitori e degli automakers per l’elettrificazione non è in dubbio, la disponibilità a prezzi accessibili delle materie prime non è così scontata, e anzi potrebbe scatenare una vera e propria “guerra” tra i produttori, come ha ricordato il ceo di Renault.

La “disconnessione” tra investimenti upstream (materie prime) e downstream (tecnologie) è infatti uno dei campanelli d’allarme per molti analisti e professionisti del settore, che segnalano quanto la difficoltà e facilità di assicurare capitale ai due estremi della supply chain – soprattutto in un contesto inflattivo e di tensioni geopolitiche – possa ampliare, e non mitigare, la distanza tra capacità estrattive/raffinazione e quella effettiva a livello manifatturiero e di installazione (600 miliardi di dollari sono stati spesi, a livello globale, solo nel 2022). Per Benchmark Minerals Intelligence, per esempio, serviranno circa 52 miliardi di investimenti per colmare il gap, con più di 300 nuove miniere di battery metals richieste entro il 2035.

In questi due anni, la crescita dei prezzi delle materie prime – specialmente per litio e nichel, seppur strutturalmente diverse – ha infatti rallentato, secondo l’Iea, un trend decennale di abbassamento dei costi delle tecnologie rinnovabili grazie all’innovazione e all’economia di scala. Un fenomeno che ha colpito soprattutto l’industria eolica e in misura più contenuta fotovoltaico e batterie, e che è anche una diretta conseguenza del trend citato: oggi, il peso delle materie prime ($/kWh) sul costo totale del prodotto finale è certamente più ampio rispetto a dieci anni fa. Solo per le batterie, oggi quasi il 40% del costo ricade sulla manifattura dei catodi – costituiti, a seconda delle composizioni chimiche impiegate, da percentuali diverse di litio, nichel, cobalto e manganese – con un trend che vede progressivamente spingere verso i Lfp (litio ferro-fosfato) e Nmc.

Aumenti che si spiegano per molteplici ragioni, per effetti di breve periodo (come lo squeeze che ha colpito il nichel), o più strutturali come per il litio, il cui andamento segue la contrazione o l’espansione industriale della Cina, che domina la produzione di batterie. Ma che potrebbero cronicizzarsi qualora domanda e offerta divergessero. Per valutare lo stato delle forniture esistenti e future, l’Iea ha preso in esame tutti i progetti in rampa di lancio a livello minerario e non solo.

Sui volumi, l’aumento di capitale e investimenti registrato (+20% nel 2021, +30% nel 2022) dalle prime 20 aziende minerarie globali fa ben sperare: dalle major del settore come Rio Tinto, Bhp, Glencore e Vale (che possiedono un portfolio diversificato, e ad oggi incentrato su commodity essenziali come ferro, gas, rame e petrolio), ai produttori focalizzati su rame, nichel e cobalto come Norilsk Nickel, China Molybdenum e Codelco, passando per le aziende specializzate nell’estrazione e lavorazione chimica del litio, come Albemarle, Sqm, Ganfeng e Tianqi Lithium. Nel 2022, la spesa Capex è stata appena superiore ai 40 miliardi di dollari, inferiore al 2012 e comunque dominata dalle majors. A livello nazionale, si registra inoltre un aumento della spesa per nuove esplorazioni – fondamentale nel lungo termine – incentivata dall’aumento dei prezzi e dall’impegno dei paesi verso la decarbonizzazione, ma comunque concentrata nei paesi tradizionalmente minerari come Australia, Canada e i paesi del Sud America, che guardano al litio come uno straordinario volano di sviluppo.

“Sono novità incoraggianti” ha dichiarato Fatih Birol, direttore dell’Agenzia, “siamo meno preoccupati rispetto a quanto fossimo due anni fa”. Un segnale che i giganti, e non solo, dell’industria mineraria prendono sul serio la scala di penetrazione delle rinnovabili, grazie anche alle politiche di sostegno dei paesi. L’iea ritiene che, qualora tutti i progetti analizzati diventassero effettivamente operativi, l’offerta di minerali critici sarebbe sufficiente secondo i target nazionali di decarbonizzazione. Nel caso del litio, per esempio, nel 2030 l’offerta sarebbe pari a 420.000 tonnellate metriche, con un deficit di sole 23.000 tonnellate, ma ben lontana dalle 702.000 tonnellate previste in uno scenario Net Zero.

Un caveat importante è la differenza tra offerta di minerali e materiali raffinati, precursori nel caso delle batterie. Per esempio, l’aumento di output minerario di litio da spodumene roccioso o salamoie, infatti, non è condizione per equilibrare il mercato, dal momento che le specifiche tecnico-chimiche richieste dai produttori di catodi e batterie rendono ancor più complesso far incontrare domanda e offerta. Minerali (concentrato di litio) e materiali critici (idrossido di litio), dunque, non sono due facce della stessa medaglia. Ed è in questo collo di bottiglia che si registra il principale rischio di approvvigionamento.

Se infatti il contesto, dal 2021, risulta leggermente migliorato in termini di diversificazione delle forniture nel segmento mining (in particolare, per il nichel), la concentrazione dell’offerta per i materiali raffinati è rimasta praticamente inalterata, con la Cina che gioca un significativo ruolo con circa due terzi del mercato (principalmente per litio, più di metà, cobalto, grafite e terre rare, seppur queste ultime non siano oggetto del report) e il crescente ruolo dell’Indonesia per il nichel classe 1 e derivati compatibili per l’utilizzo nelle batterie.

Terzo punto d’analisi, l’impatto socio-ambientale, che rimane il punto più negativo per le compagnie minerarie studiate. Pochi i progressi sulle emissioni di C02, così come per il consumo d’acqua e la gestione degli scarti. Elemento che accomuna, in negativo, i tre elementi è la gestione di depositi che, soprattutto per i metalli non-ferrosi come rame, nichel, zinco, presentano concentrazioni mineralogiche di minor qualità, richiedendo dunque maggiori costi e oneri. La concentrazione, inoltre, delle attività di raffinazione, fortemente energivore, in contesti regionali caratterizzati da un mix energetico a maggioranza fossile (carbone) rende la diversificazione auspicabile ma non per questo meno complessa. Ritardi dovuti all’opposizione delle comunità locali, o per inefficienze nella regolamentazione delle attività, rimangono due aspetti da non sottovalutare.

In conclusione, come ha ricordato Fatih Birol nella sua introduzione, “la sicurezza e la convenienza della transizione energetica dipenderà sulla disponibilità di minerali critici a livello mondiale”. Sono due, infatti, i trend che rischiano di inceppare il meccanismo: da un lato, il nazionalismo delle risorse che sembra far breccia tra i paesi ricchi di materie prime, che vogliono sempre più trarre maggior valore aggiunto dai ricchi depositi domestici (come per il litio in Sud America), attirando e selezionando gli investimenti anche lungo la filiera delle batterie. A livello globale, le restrizioni all’esportazione sulle materie prime critiche sono quintuplicate dal 2009. Dall’altro, i paesi consumatori (tra cui la Cina, che ha investito da sola, tra il 2018 e il 2021, 4.3 miliardi di dollari in asset minerari di litio tra Cile e Argentina, circa il doppio delle aziende americane, australiane a canadesi messe insieme) e le aziende automotive (come BYD, Tesla, Stellantis e General Motors) in cerca di partnership d’oltreoceano e accordi di fornitura a lungo termine.

Mettere insieme interessi ed esigenze che sembrano divergere sarà la grande sfida dei prossimi decenni, soprattutto in un contesto in cui le materie prime – come di recente dimostrato dal caso di gallio e germanio che potrebbero subire restrizioni all’export da parte della Cina – al pari dei semiconduttori sono al centro della competizione tecnologica e geopolitica globale.

A settembre 2023, a Parigi l’Iea radunerà, nella prima conferenza dedicata dell’Agenzia, i principali stakeholders, dai ceo dell’industria mineraria globale ai policymakers delle nazioni coinvolte. Un primo passo verso una raw materials diplomacy che pare urgente e necessaria ai fini degli obiettivi climatici, per scongiurare una weaponization che potrebbe ritardare o rendere ancor più costosa la transizione. Soprattutto alla luce del fatto che nessun paese, da solo, può scongiurare scenari di carenza di materie prime.

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