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I Paesi del Golfo vogliono i loro spazi nella crisi di Gaza

I grandi Paesi del Golfo protestano contro gli Stati Uniti, che per proteggere Israele mettono il veto onusiano a una risoluzione sul cessate il fuoco. Fattore che invece per la regione ha un valore strategico

“Gli Emirati Arabi Uniti sono profondamente delusi dall’esito del voto di oggi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul progetto di risoluzione del cessate il fuoco umanitario, che è stato sostenuto da 13 dei 15 membri. Dopo più di quattro mesi di massacri e di cui non si vede la fine, questa guerra deve finire”. La rappresentanza emiratina all’Onu non usa mezzi termini contro il veto espresso dagli Stati Uniti alla risoluzione — avanzata dall’Algeria, ma sposata da ampie parti del mondo arabo — per chiedere un cessate il fuoco immediato. Washington avrebbe in tasca una sua risoluzione dura con Israele, ma intanto tiene il punto (storico) e non accetta lo scatto in avanti contro l’alleato aggredito da Hamas — diventato poi colpevole di una risposta iper violenta quando ha invaso militarmente la Striscia di Gaza.

Anche Riad ha preso una posizione simile a quella di Abu Dhabi, dicendosi “rammaricata” per la scelta statunitense, con un particolare di forma e un elemento enorme di contenuto (fattori che nella diplomazia spesso si fondono): lo statement di protesta saudita è stato pubblicato solo in arabo, ma contiene un passaggio determinante in cui il regno evidenzia la necessità di riformare il Consiglio di Sicurezza per “evitare doppi standard internazionali” e aggiunge che la posizione degli Stati Uniti sta accelerando il multipolarismo. Un messaggio laser.

Che i più importanti Paesi del Golfo esprimano così pubblicamente una critica contro il loro più importante alleato globale non è banale, e va aggiunto che malumori sulla mossa onusiana americana ci sono stati anche in Qatar, con sponda Oman. Doha, “rammaricata” non può esporsi eccessivamente visto che sta conducendo i delicatissimi negoziati per il rilascio degli ostaggi (insieme alle intelligence di Egitto, Usa e Israele) e per l’arrivo di materiale umanitario nella Striscia (cercando corridoi tra israeliani e i terroristi di Hamas).

Ormai Riad, Abu Dhabi e Doha hanno acquisito una centralità rilevante già dopo l’inizio della guerra russa in Ucraina — quando provavano a capitalizzare sul piano della standing internazionale le entrate extra frutto della diversificazione energetica europea da Mosca. Ora che la guerra e la crisi sono entrate nel loro cortile geo strategico intendono aumentare quella capitalizzazione e sfruttare il contesto per dimostrare le proprie necessità e le letture del mondo che accompagnano le loro “Vision” (come vengono chiamati i programmi di sviluppo legati alla transizione economica, ma ruotanti anche attorno a quella sociale, culturale e politica, internazionale).

“Sono convinto che i Paesi del Golfo possano svolgere un ruolo chiave nel favorire il dialogo e la riconciliazione tra le parti in conflitto in Medio Oriente, in particolare nella crisi di Gaza. L’Italia apprezza gli sforzi di mediazione di alcuni Paesi del Golfo, come il Qatar, che ha contribuito a fornire aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. L’Europa è pronta a sostenere queste iniziative e a lavorare insieme ai Paesi del Golfo per promuovere una soluzione a due Stati, basata sul diritto internazionale e sul rispetto dei diritti umani”, ha detto il rappresentante speciale dell’Ue per la Regione del Golfo, Luigi Di Maio.

Non a caso, l’ex ministro degli Esteri italiano ha scelto un media emiratino, The National (in lingua inglese), per una delle sue prime uscite pubbliche da quando il suo incarico è diventato operativo. Di Maio ha viaggiato molto per la regione in questi ultimi mesi, e quando dice che “la Comunità internazionale sa molto bene che senza i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, è molto difficile cogliere le dinamiche regionali e capire come risolvere la questione del conflitto di Gaza”, è probabilmente per una consapevolezza concreta che ha acquisito nel corso dei suoi incontri.

La guerra di Gaza provocata dall’attentato di Hamas del 7 ottobre è stato un drammatico e sanguinoso incidente tattico avvenuto in un momento in cui la regione cercava un accomodamento interno attraverso varie forme di distensione e de-conflicting. Sebbene esistano forze che intendono continuare lo scontro per perpetrare i propri interessi — come per esempio i Pasdaran o gli Houthi, Hamas stessa o altri gruppi combattenti e terroristici — la regione sembra interessata a mantenere in vita il flusso innescato negli ultimi cinque anni.

Lo testimoniano per esempio le reazioni controllate di Riad e Teheran, che hanno continuato a mantenere vivo il dialogo innescato grazie al tavolo diplomatico offerto dalla Cina; le attività attorno alle interconnessioni multi-modali che dovrebbero collegare il Golfo con l’Indo Pacifico, dove l’India è attivissima; o ancora le rinnovate relazioni diplomatiche tra attori precedentemente rivali come Turchia ed Egitto. In questo quadro, la guerra guerreggiata da Israele — player determinante con cui il Golfo intende mantenere vivi (e vivaci) i contatti — diventa un intralcio. E la spinta al cessate il fuoco non è solo una necessità umanitaria (per proteggere i fratelli palestinesi), ma qualcosa di più strategico.

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