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Mediterraneo ancora insicuro, ma i raid contro gli Houthi funzionano

Le azioni offensive di prevenzione con cui Usa e Uk hanno colpito gli Houthi stanno funzionando. Il gruppo yemenita ha ridotto quantità e qualità degli attacchi. Ma le società restano scettiche sulla sicurezza dell’Indo Mediterraneo

La riduzione delle capacità di attacco degli Houthi c’è stata: i raid statunitensi sono riusciti a rendere più complicato per l’organizzazione yemenita colpire le navi cargo che solcano le rotte indo-mediterranee dall’Europa all’Asia. Ciò nonostante, spiegano fonti del settore dei trasporti commerciali, non c’è ancora fiducia e i traffici tra Bab el Mandeb e Suez faticheranno a tornare presto alla normalità.

Le forze armate statunitensi e britanniche stanno marcando l’area. Compiono raid preventivi contro le piattaforme di attacco yemenite, che raccontano come auto-difesa e responsabilità sulla sicurezza collettiva. Ma gli Houthi non si fermano. L’ultima azione è stata intorno alle tre di notte del 12 febbraio, contro un cargo operato da una società greca che stava consegnando prodotti alimentari dal Brasile al porto “Iman Khomeini” di Bandar Abbas. Il bersaglio è stato colpito senza danni eccessivi, ma questo conta quasi relativamente: l’aspetto particolare è che lo scalo iraniano verso cui era diretto il bulk-carrier battente bandiera delle Marshall Island viene anche usato dai Pasdaran per far partire missili e droni con cui riforniscono gli Houthi. E il Brasile, che quest’anno presiede il G20 e che su temi di sicurezza internazionale tiene sempre una posizione terza, esporta in Iran ogni anno circa 1,5 miliardi di dollari di mai e soia. La soia e i suoi derivati sono il terzo prodotto più importato dall’Iran, dove la prosperità interna è stata già oggetto di proteste contro il regime. Anche per questo il più recente attacco degli Houthi è significativo e racconta intanto due cose.

La prima: come più volte descritto in questi anni, gli yemeniti mantengono un’agenda in parte indipendente da quella dei loro protettori iraniani (che potrebbero non aver apprezzato che le armi da loro fornite finissero utilizzate contro gli interessi della Repubblica islamica). Secondo: è possibile che gli attacchi americani in Yemen abbiano anche ridotto il coordinamento — in precedenza segnalato da Washington — tra Houthi e Iran, sia nei rifornimenti, che nella raccolta di informazioni di intelligence sui bersagli. E dunque, gli yemeniti potrebbero aver scelto di rallentare il ritmo della destabilizzazione perché temono che espandendosi finiscano oggetto dei preemptive strike americani e perché non hanno targeting sicuro offerto dall’Iran?

Altre ricostruzioni più fantasiose che alcune fonti sobillano: gli Houthi lo hanno fatto apposta perché sono in una fase di “run-in” con gli iraniani, che per paura di finire coinvolti in uno scontro con gli Usa stanno de-escalando lentamente — “anche sotto la pressione saudita”, dice un funzionario europeo che segue l’area, ricordando che da Riad nei giorni scorsi c’è stata una telefonata a Teheran, ufficialmente per celebrare l’anniversario nazionale della rivoluzione islamica khomeinista.

Il gruppo militante che controlla metà dello Yemen ha lanciato solo quattro importanti attacchi alle navi commercial dal 26 gennaio. Se si esclude l’attacco più recente contro il carico diretto in Iran, i missili non sono riusciti nemmeno a colpire le imbarcazioni. E dunque, non solo frequenza degli attacchi Houthi è diminuita in modo significativo da quando le forze statunitensi e del Regno Unito hanno iniziato la loro campagna sui siti di lancio missilistici del gruppo, e sulle capacità dei droni aerei e marittimi, l’’1 gennaio, ma anche la qualità.

Ormai le imbarcazioni anglo-americane impegnate nell’Indo Mediterraneo si vantano dei colpi assestati e indicano sulla chiglia il numero di droni o missili yemeniti abbattuti. Questo potrebbe aver portato il gruppo a risparmiare pezzi d’attacco, consapevoli che sono tutto sommato limitati — anche perché, uno degli altri obiettivi della missione che il Pentagono ha rinominato “Poseidon Archer”, e della attività parallela difensiva “Propaertiy Guardian”, è quello di impedire i trasferimenti di armi dall’Iran (e gli Houthi, lasciati a secco si sarebbero indispettiti, secondo la fonte sopra citata).

Però, l’insicurezza resta. Il calo degli attacchi non significa che gli yemeniti non siano più in grado di colpire, e c’è consapevolezza che la campagna militare contro di loro non può essere stata esaustiva così rapidamente. Secondo i dati di Clarksons, una società d’analisi inglese citata dal Financial Times, fino al 5 febbraio gli arrivi di navi portacontainer nel Golfo di Aden sono stati in calo del 92% rispetto alla media per la prima metà di dicembre. Gli arrivi dei vettori sono diminuiti del 91%, mentre il traffico complessivo attraverso la regione è sceso del 73%. Dati poco incoraggianti.

Recentemente anche la francese Cma-Cgm, la terza più grande società di spedizione di container a al mondo, ha annunciato la sospensione dei passaggi per il corridoio indo-mediterraneo, dopo che grazie alla protezione offerta dalla marina francese aveva ripreso quelle rotte. Quello che si teme, è che la riduzione degli attacchi possa essere legata solo alla riduzione dei flussi di navi collegate a Israele. Gli Houthi hanno iniziato la loro campagna accompagnandola alla narrazione pro-palestinese, raccontandola come rappresaglia contro l’invasione israeliana della Striscia di Gaza. Ma buona parte della ratio che li ha portati ad agire riguarda l’acquisire una standing internazionale militare da poter poi sfruttare nelle trattative per la fine della guerra civile in Yemen — dove sono parte in causa con interessi diretti. Cosa succede se la ragione d’attacco cambia, davanti a certi interessi che permangono? Secondo le informazioni di Formiche.net, nemmeno i cinesi — che gli Houthi hanno dichiarato liberi dagli attacchi insieme ai russi — si fidano particolarmente del contesto.


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