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Passione nucleare. Ecco perchè Xi ha voluto il rafforzamento del deterrente atomico

Dietro allo sviluppo dello strumento nucleare (promosso sin dalla sua scalata al potere) si nasconde un duplice desiderio di Xi. Da una parte, egli vuole garantire alla Cina un certo status internazionale; dall’altra, vuole dotarsi di uno strumento di coercizione che gli altri attori non possono ignorare

Per una potenza che aspira all’egemonia, lo strumento nucleare gioca un ruolo fondamentale. Lo sa bene il segretario del Partito Comunista Cinese Xi Jinping, che immediatamente dopo la sua ascesa al potere si è subito attivato per rilanciare lo sviluppo dell’arsenale atomico cinese: nel dicembre 2012, meno di venti giorni dopo il suo insediamento, Xi ha riunito i vertici militari responsabili dello strumento di deterrenza nucleare per pianificare un’espansione dello stesso. Report interni della riunione riferiscono che il segretario abbia definito l’arsenale nucleare cinese come “un pilastro del nostro status di grande potenza”, e che abbia ribadito la necessità di avere “piani strategici per rispondere, nelle condizioni più complicate e difficili, all’intervento militare di un nemico potente”. Difficile dubitare che il nemico a cui faceva riferimento Xi fossero gli Stati Uniti.

Da quella riunione sono passati più di dieci anni, e in questo lasso di tempo la capacità nucleare di Pechino si è trasformata profondamente. Oggi le forze armate cinesi hanno all’attivo circa cinquecento testate nucleari (più o meno il doppio di quante ve ne erano al momento dell’ascesa di Xi), di cui centro costruite nel solo 2023. E un report del Pentagono segnala che entro il 2030 il numero di testate dovrebbe raggiungere le mille unità. La trasformazione, avvenuta nel 2015, del Second Artillery Corps nel People’s Liberation Army Rocket Force ha sancito ufficialmente l’equiparazione delle forze nucleari allo stesso livello della marina, dell’aviazione e delle forze di terra della Pla. Parallelamente è stato portato avanti lo sviluppo di nuovi vettori da parte della Repubblica Popolare, che sta lavorando al dispiegamento di una serie sempre più sofisticata di missili, sottomarini, bombardieri e veicoli ipersonici in grado di sferrare attacchi nucleari. E ancora, Pechino ha promosso l’espansione del sito di test nucleari locato nella regione occidentale dello Xinjiang, rendendolo pronto alla conduzione di nuovi ed eventuali test sotterranei in caso di una corsa agli armamenti tra superpotenze. L’obiettivo è quello di diventare una potenza nucleare in piena regola. “Una delle dimensioni della crescita del gigante cinese è quella dell’affermarsi come un attore nucleare a tutti gli effetti, con un arsenale che cresce quantitativamente e qualitativamente, per essere al pari di quello russo e di quello statunitense” aveva detto pochi mesi fa a Formiche.net l’esperta di nucleare Ludovica Castelli.

Ma non è solo lo strumento nucleare cinese in sé ad essersi trasformato durante l’ultimo decennio. Anche la sua strategia nucleare si è adattata di conseguenza. Dal 1964 (anno in cui la Repubblica Popolare ha sviluppato il suo primo ordigno atomico) fino ad ora, la leadership cinese ha sempre sottolineato l’aspetto puramente difensivo e deterrente della propria capacità atomica, stressando più volte il proprio committment al principio del “no first use”. Ma nella postura marcatamente revisionista assunta da Pechino, lo strumento nucleare assume oggi tutt’altro significato.

Basti pensare al caso di Taiwan: la leadership cinese ha più volte dichiarato (per motivi di propaganda e di reputazione internazionale) di volere un’unificazione pacifica con Taiwan, affermando però che il ricorso alla forza rimanga possibile in caso di fallimento delle altre opzioni. Se Pechino decidesse di optare per quest’ultima alternativa, un intervento militare statunitense a difesa di Taipei sarebbe una possibilità molto concreta. Ma le nuove capacità nucleari cinesi, accompagnate dall’uso di una retorica più aggressiva da parte degli esponenti dell’establishment politico-militare del Dragone, hanno il loro peso: esse rappresentano una minaccia credibile non solo per le città degli Stati Uniti, ma anche per le basi militari americane nel Pacifico, come ad esempio Guam. Il rischio di trasformare uno scontro convenzionale in un confronto nucleare influenzerebbe il processo decisionale del Pentagono.

“La strategia di escalation che possono applicare ora è molto più sfumata”, è il commento di Bates Gill, direttore esecutivo del Centro di analisi cinese dell’Asia Society Policy Institute, riportato dal New York Times. “Il messaggio implicito non è solo: ‘Possiamo bombardare Los Angeles’. Ora è anche: ‘Potremmo spazzare via Guam, e non volete rischiare un’escalation se lo facciamo”.

Anche se fino ad ora Xi non si è rivelato essere particolarmente prono a prendere decisioni rischiose, il suo ardente desiderio di dotarsi di una moderna ed efficiente forza nucleare potrebbe tradire una sua predisposizione ad usarla come “scudo” qualora decidesse di cimentarsi in imprese espansioniste sul piano internazionale. E Washington deve essere pronta a gestire crisi di questa portata, che abbiano o meno una sfumatura nucleare.

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