La decisione di Niamey arriva appena dopo un incontro della giunta golpista con una delegazione statunitense. Gli Usa (e l’Ue) perdono uno dei centri delle attività counter-terrorism in Africa centro-settentrionale, col rischio che la sicurezza del Niger venga presa in mano dalla Russia (come già succede altrove nel Sahel)
“Il governo del Niger, tenendo conto delle aspirazioni e degli interessi del suo popolo, decide con piena responsabilità di rinunciare con effetto immediato all’accordo relativo allo status del personale militare degli Stati Uniti e dei dipendenti civili del dipartimento della Difesa americano nel territorio della Repubblica del Niger”, ha detto il colonnello che fa da portavoce della giunta militare del Niger, in una dichiarazione alla televisione nazionale che annuncia un cambiamento profondo e indice dei tempi.
La giunta golpista che a fine luglio scorso ha preso il controllo di Niamey ha deciso di concludere un accordo con gli Stati Uniti – in piedi sin dal 2012 – il quale ha permesso al personale militare e civile del Dipartimento della Difesa di operare da una base militare (si chiama Air Base 201) posizionata cinque chilometri fuori la città di Agadez, nell’area centro-occidentale del Paese. A questa si aggiunge una all’aeroporto di Niamey (la Air Base 101). Operazioni che si muovono tra il territorio del Sahel, infestato dai terroristi di varie sigle internazionali (affiliati allo Stato islamico o ad Al Qaeda e collusi con traffici di ogni tipo, compreso quelli di esseri umani provenienti dall’area o da aree più meridionali dell’Africa che poi prendono la rotta mediterranea) fino alla Somalia, dove l’attività del gruppo combattente jihadista Al Shaabab non rallenta, o in Nigeria e più a nord verso il Nordafrica.
Nel wording della dichiarazione, scelto di certo non casualmente, quello che conta è il passaggio in cui si indica che la decisione dei golpisti guidati da Abdourahamane Tchiani è conseguenza delle “aspirazioni e degli interessi del suo popolo”. Lo stesso che già nei giorni convulsi dell’estate scorsa, in cui era stato estromesso dal potere il presidente Mohamed Bazoum, aveva accettato senza eccessive manifestazioni di scontento il regime change interno. Bazoum e il suo Paese erano considerati negli Stati Uniti e in Unione Europea come dei riferimenti di democraticità in Africa, e le collaborazioni con le forze armate nigerine erano al centro delle attività del counter-terrorism occidentale nel continente.
Tra l’altro, anche l’Italia è presente con un contingente attivo nel Paese, secondo una missione autorizzata – Misin, Missione Italia di Supporto in Niger – per formazione e assistenza medico-sanitaria. In precedenza c’era una presenza fissa anche francese, come altrove nel Sahel, dove Parigi si era fatta promotrice di interventi di carattere securitario per combattere la dilatazione terroristica. Interventi che non hanno funzionato al punto che la Francia ha dovuto abbandonare quasi tutte le postazioni nella regione. Resta in Niger una base logistica tedesca.
Quanto succede a Niamey ricalca uno schema già visto altrove nel Sahel, dove nel corso degli anni sono venuti giù una serie di governi a opera di golpe militari che hanno un comune denominatore: ufficiali che si ergono a baluardi della sicurezza delle collettività, mentre i governi regolari non riescono a combattere l’insorgenza terroristica. La generale percezione di insicurezza è condivisa dalle cittadinanze, che accusano non solo gli esecutivi locali, ma anche le loro cooperazioni con l’Occidente – spesso semplificate nella presenza sul campo dilimitate unità europee (per esempio, la missione italiana è composta da un contingente medio annuale di 500 militari, 100 mezzi terrestri e 6 aerei) e americane.
Sotto la narrazione alterata che racconta questa presenza militare occidentale come forma di colonialismo, i governi in carica sono stati descritti come corrotti e collusi, per questo avrebbero ceduto aliquote di sovranità, e inefficaci nel garantire sicurezza e prosperità ai propri cittadini. La rincorsa dei golpisti è stata agevolata da questo substrato – basato in parte su una realtà: il terrorismo dilaga, la sicurezza erosa – e spinta da forme di disinformazione agevolate anche da campagne russe. Mosca ha guadagnato dalla situazione infatti, sostituendosi in molti casi – attraverso l’ex Wagner, ora Africa Corps – ai contingenti occidentali. È successo in Mali e sta succedendo in Burkina Faso (e altrove nel continente). Sostituzione che non solo ha portato i russi a gestire la sicurezza della giunte, ma ha creato forme di penetrazione economico-industriale a vantaggio del sistemi di oligarchi connessi ai contractor e al Cremlino (che nega questi link). Qualcosa del genere potrebbe succedere in Niger?
A gennaio, in un’intervista a Jeune Afrique a margine del suo tour in Africa, il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, aveva annunciato che Washington sarebbe stata pronta a rimuovere le sanzioni con cui aveva punito Niamey (e limitato le attività di cooperazione anche militare) se il Paese fosse tornato “entro due anni” lungo il solco democratico. Il capo della diplomazia dell’amministrazione Biden si augurava che l’Ecowas avesse aiutato le giunte golpiste in quel percorso. Cinque giorni dopo la pubblicazione dell’intervista, le giunte golpiste di Mali, Burkina Faso e Niger hanno annunciato di essersi raggruppate in una nuova entità di cooperazione, per altro sfilandosi dal meccanismo della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, nota con l’acronimo inglese Ecowas.
Una scelta simbolica, che sembra aprire a forme di collaborazione alternative, considerando che in due di quei due Paesi la Russia è presente. Quest’estate, Ecowas aveva minacciato con fermezza l’intervento armato contro la giunta in Niger, salvo poi rinviare tutto per l’inconsistenza dell’offerta militare e lo scontento suscitato tra i cittadini dei Paesi membri per un’azione di guerra – mentre Mali e Burkina avevano annunciato l’intenzione di difendere i colleghi golpisti di Niamey.
Due settimane fa, dopo aver tracciato movimenti di armi russe attraverso la logistica libica, su Formiche.net avevamo segnalato un rafforzamento della “nuova Wagner” – gli Expeditionary Corps sotto il controllo dell’intelligence militare Gru, noti nel continente come “Africa Corps” – verso il sud saheliano. Ora emerge la volontà nigerina, per altro resa pubblica pochi giorni dopo che Tchiani aveva tenuto colloqui di alto livello con funzionari diplomatici e militari statunitensi (nel tentativo di salvare il salvabile). Secondo la dichiarazione di chiusura dell’intesa tra i due Paesi, l’accordo era stato imposto al Niger ed era stato in violazione delle “regole costituzionali e democratiche” della sovranità della nazione dell’Africa occidentale.
Nelle stesse dichiarazioni, viene sottolineato che la delegazione americana – guidata dall’assistente del segretario di Stato per gli Affari africani, Molly Phee, e dal capo di AfriCom, il generale Michael Langley – è stata ricevuta “per cortesia”, anche se aveva “violato i protocolli diplomatici non annunciando tempi della visita e composizione della missione”. Da mesi, il Pentagono sta valutando come il cambiamento di potere in Niger avrebbe avuto un impatto sugli effettivi statunitensi di stanza nel Paese. Lo stesso stanno facendo altre nazioni occidentali. In una lettera inviata al Congresso nel dicembre 2023, il presidente Joe Biden ha osservato che circa 648 militari statunitensi sarebbero rimasti schierati in Niger. La permanenza nel Paese viene in generale considerata importante, sia per ragioni operative sia perché potrebbe essere rimpiazzata da forze ostili – come quelle russe o anche iraniane.