Per Barnes-Dacey, direttore del Mena Programme dell’Ecfr, gli europei dovrebbero lavorare con gli americani per evitare che Israele reagisca con un contrattacco sull’Iran. G7 e Paesi della regione del Golfo chiedono di evitare l’escalation dopo il bombardamento (non simbolico) di Teheran
“La traiettoria della situazione dipende ora dalla possibilità che Israele senta il bisogno di reagire, anche attraverso potenziali attacchi diretti all’Iran. Sebbene Israele possa nutrire un senso di fiducia, sarebbe probabilmente un errore pensare che l’Iran non scatenerà una risposta molto più incisiva agli attacchi sul proprio territorio, che considererà in termini esistenziali”, commenta Julien Barnes-Dacey, direttore del Mena Programme dell’Ecfr.
La pressione diplomatica continua e sfrutta questa fase di quiete dopo la tempesta per evitare la deflagrazione della situazione in conflitto regionale. Oltre alla riunione del G7 organizzata dall’Italia su richiesta degli Stati Uniti, intensi scambi sono proseguiti in queste ore di fall-out dopo il raid iraniano di sabato notte contro Israele. Se le interlocuzioni diplomatiche non sono riuscite a evitare la rappresaglia iraniana (su cui Teheran “si sentiva obbligato”, come dice Barnes-Dacey), la speranza è che evitino una contro reazione israeliana e l’innesco di una spirale potenzialmente incontrollabile. Nel giro di pochi minuti, per esempio, mentre il ministro degli Esteri saudita parlava con l’omologo iraniano e quello americano, il collega alla Difesa faceva il punto con il capo del Pentagono.
“Gli attacchi iraniani hanno anche raccolto un nuovo sostegno internazionale a favore di Israele, anche da parte di importanti Stati arabi critici nei confronti dell’offensiva di Gaza, che tuttavia hanno appoggiato la risposta militare israeliana”, aggiunge l’esperto dell’Ecfr, notando che sebbene l’Iran abbia lanciato un’operazione diretta contro Israele per la prima volta (non usando le milizie connesse ai Pasdaran), la debolezza di questi attacchi e il chiaro desiderio di Teheran di evitare di essere risucchiato in un conflitto diretto, non gioca a favore del rafforzare la sua posizione di deterrenza.
Per Barnes-Dacey, la natura degli attacchi può rafforzare invece la percezione israeliana che Teheran sia in svantaggio, non abbia la forza di volontà e la capacità di impegnarsi più a fondo, e che questo sia il momento per Israele di infliggere un colpo più profondo, a lungo cercato, all’Iran e ai suoi proxy regionali. E questo potrebbe creare presupposti per spingere Benjamin Netanyahu a un’ulteriore risposta. Al Monitor ha un’informazione interessante su questo: fonti governative israeliane “di alto livello” dicono che è “altamente improbabile che [Netanyahu] disobbedisca” alla richiesta fattagli da Biden, che ha pressato per evitare il caos chiedendo a Israele di non reagire e — alla pari dell’Iran — considerare chiuso il botta e risposta.
Se è vero che l’attacco ha esposto i limiti iraniani, è altrettanto vero però che ha dimostrato come Israele senza l’aiuto degli Stati Uniti (e alleati: Regno Unito, Francia e Giordania sono stati operativi nelle intercettazioni) non è al sicuro. Quella che è stata messa all’opera è infatti “un’architettura regionale decisiva e resiliente” costruita dal Pentagono “per prepararsi esattamente a ciò che abbiamo visto accadere”, per usare le parole di Charles Lister del Middle East Institute.
Anche perché, per quanto telegrafato e volutamente coreografico (le immagini della cupola di al Aqsa sorvolata da missili e droni iraniani sono già nella storia), l’attacco iraniano non è stato simbolico. L’impiego di vettori balistici, più complessi da intercettare, ne è testimonianza. Un funzionario della difesa americana ha detto alla sempre informatissima Laura Rozen che se avesse avuto successo (ossia non fossero stati intercettati i vettori iraniani), l’attacco avrebbe prodotto danni considerevoli — e non ultra marginali come è stato: “A un certo punto c’erano cento missili balistici in cielo che avrebbero potuto raggiungere Israele in pochi minuti”.
Va detto che questa ricostruzione ha anche il valore di messaggio a Israele su quella dipendenza in termini di sicurezza – e dunque sull’evitare di disobbedire, per dirlo come Al Monitor. Tuttavia, il CentCom ha comunicato ufficialmente di aver intercettato 80 droni one-way (giornalisticamente vengono chiamati “kamikaze”) e sei vettori balistici. E la ricostruzione sul valore dell’attacco è corroborata anche dall’Institute For the Study of War, che nella sua analisi mette in chiaro: “L’attacco è stato progettato per avere successo, non per fallire”.
Ed è questo il fattore delicato che potrebbe portare Netanyahu sotto pressione delle componenti più oltranziste — il ragionamento è: non ci hanno solo sfidato, colpendoci, ma volevano farci del male (e dunque una reazione dura potrebbe essere vista necessaria per ristabilire la deterrenza). Altro dato da non sottovalutare: circa il 50% dei missili balistici lanciati dall’ran non sono riusciti a partire o si sono schiantati da soli prima di raggiungere il bersaglio, hanno detto al Wall Street Journal altri tre funzionari statunitensi. Ossia, esiste un mix di necessità, interessi e debolezze che remano a favore di chi pensa ad affondare il colpo.
Anche per questo Biden ha fatto uno scatto in avanti nel dire – subito, sabato nelle prime ore dopo l’attacco – che non supporterà una contro-reazione israeliana. E dal G7, gruppo che raccoglie alcuni dei principali alleati dello stato ebraico, si è sottolineata “l’esigenza di evitare l’escalation, invitando le parti ad astenersi da azioni volte ad acuire le tensioni regionali”. Stessa esigenza che emerge dai Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, i cui membri sono fortemente preoccupati perché in prima linea e perché spingono per il ripristino dei seppure delicati equilibri dello status quo per ritornare su interessi strategici più ampio – che chiedono distensione e non guerra, come dimostra anche l’accettazione di emiratini e sauditi, su invito americano, di condividere informazioni di intelligence con gli israeliani durante l’attacco iraniano.
In questo quadro, secondo Barnes-Dacey, “gli europei dovrebbero ora lavorare duramente e a stretto contatto con gli americani per prevenire una continua escalation, iniziando con il fare pressione su Israele a non vendicarsi ulteriormente e poi concentrando i rinnovati sforzi per garantire un cessate il fuoco a Gaza che continui ad alimentare la situazione più ampia”. Cessate il fuoco che ieri è stato chiesto anche nel comunicato congiunto dopo la riunione del G7 – che tra pochi giorni si riunirà a Capri, per la ministeriale Esteri e forse produrre un ulteriore step up diplomatico.