Nel giro di pochi giorni tutti i grandi temi che riguardano l’Indo Pacifico si sono mossi attorno a Washington, con interessi e sfide che riguardano gli Usa e i suoi alleati, e chiaramente i rivali, sollecitati da una serie di coincidenze (coincidenze?)
(Questa analisi è tratta da Indo Pacific Salad, la newsletter sull’Indo Pacifico curata da Emanuele Rossi. Per riceverla iscriviti qui)
Non succede frequentemente che la strategia di un Paese si dimostri in modo così esplicito come sta succedendo in questa settima per gli Stati Uniti e la loro visione dell’Indo Pacifico. Quell’insieme di interpretazioni dottrinali e pratiche che compone il pensiero americano si sta mostrando davanti ai nostri occhi. Il concetto di “free and open Indo-Pacific”; la creazione di un network di partnership composto da sistemi di alleanze minilaterali e più informali; il ruolo centrale della collaborazione nell’industria militare e quella in settori super cruciali come le nuove tecnologie; il confronto competitivo con la Cina, i meccanismi di guardrail, i rischi della congiunzione Mosca-Pechino; l’infiammabilità dei flashpoint; la necessità di non far percepire eccessivamente il peso della competizione tra potenze a Paesi terzi, più esterni e interessati a un multi-allineamento tattico e strategico. Sono giorni in cui tutti i temi che di solito riguardano la regione si muovono direttamente nelle cronache.
Per la prima volta in nove anni, un premier giapponese torna alla Casa Bianca. Proprio mentre questa newsletter arriva nelle vostre caselle, Kishida Fumio discute con Joe Biden dell’alleanza più solida e strategica che caratterizza la presenza americana nell’Indo Pacifico (da tener a mente: il concetto “free and open Indo-Pacific” che Washington utilizza per definire la propria visione globale della regione è mutuato dal pensiero di Abe Shinzo, predecessore di Kishida). Il cuore del viaggio di Kishida è la decisione di rafforzare la già profonda cooperazione militare nippo-americana: lo definiscono in tanti un evento “storico”.
Ma domani i due saranno raggiunti dal presidente filippino, Ferdinand Marcos Jr, per un altro storico, inedito incontro americano-centrico del nuovo minilaterale Manila-Washington-Tokyo. La riunione avviene a pochi giorni dalle prima esercitazioni dei tre, e con l’Australia, nel Mare delle Filippine, dove Pechino sta compiendo azioni aggressive nell’ambito delle rivendicazioni sul bacino del Mar Cinese (la rispostadella Repubblica popolare non si è fatta attendere: manovre militari sono state organizzate nello stesso teatro e nello stesso giorno, domenica 7 aprile).
Nei giorni scorsi si è parlato anche della possibilità di ampliamento dell’Aukus, con Usa, Regno Unito e Australia che accoglieranno nuovi partner nel quadro del “Pillar 2” dell’alleanza (dove non si parlerà di sottomarini, ma di altre tecnologie di difesa e civili). Il Giappone (con il Canada) è in pole position — tanto che si parla già di “Jaukus” — ma in futuro anche le Filippine potrebbero in qualche misura esserne parte.
Sempre nei giorni scorsi è arrivato negli Stati Uniti il capo di Stato maggiore della marina taiwanese, Tang Hua, per parlare di pratiche, tattiche, approvvigionamenti e interoperabilità. A proposito di Taiwan, TSMC, il gigante dei chip, riceverà fondi attraverso il Chips and Science Act nell’ambito dell’accordo di partnership industriale con gli Stati Uniti (che vogliono fornire uno scudo politico ai ritardi della mega fabbrica progettata in Arizona, mentre si torna a parlare di “scudo di silicio”).
Restando a Taipei, Xi Jinping — che sempre in questi giorni ha ospitato presidente degli Stati federati di Micronesia, Wesley Simina, in visita di stato in Cina — e l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou si sono incontrati con tutti gli onori nella Grande Sala del Popolo (è la prima volta che succede dal 1949 che un leader corrente o ex viene ricevuto con certe attenzioni). Una mossa che pare tesa a mettere in risalto le posizioni più dialoganti presenti a Taipei, spiega Lorenzo Lamperti su China-files, che aggiunge che Pechino sta provando a “squalificare” quelle che considera “forze secessioniste”, a partire da quelle del presidente eletto Lai Ching-te (che si insedierà il prossimo 20 maggio). Non bastasse quanto elencato finora a definire la settimana: nei giorni scorsi Biden ha avuto una conversazione telefonica con Xi, in cui è stato ribadito quella che la Cina chiama “visione di San Francisco” (dal summit di novembre), ma gli Usa insistono di aver dettato i paletti su Taiwan e sulla collaborazione cinese con la Russia. Eppure…
In tutto questo, a Pechino è arrivato Sergei Lavrov. Il ministro degli Esteri russo è stato accolto dal collega Wang Yi (omologo per rango, ma Wang è anche il capo della diplomazia del Partito Comunista Cinese e tra i più diretti confidenti del leader Xi). Attenzione perché la missione di Lavrov non ha solo funzione tecnica di preparazione della visita di Stato di Vladimir Putin (programmata per maggio), ma porta con sé un grande messaggio politico.
Sempre in questi giorni, infatti, la capitale cinese ha ospitato una delegazione americana guidata dalla segretaria al Tesoro, Janet Yellen, la quale ha avvisato di “serie conseguenze” se l’assistenza militare — tramite l’industria della Difesa — di Pechino all’invasione su larga scala russa dell’Ucraina verrà “confermata” (significa che Washington ha più che un sospetto, ma attende il momento giusto per muoversi?). Contemporaneamente, sempre in questi giorni, una delegazione militare cinese è stata ospitata alle Hawaii dal Comando Indo Pacifico del Pentagono: sono stati i primi scambi del genere, military-to-military, dal 2021.
Ossia: la Cina manda segnali, accetta forme di dialogo (innanzitutto quelle economiche, con Yellen e altri segretari dei settori finanziario e commerciale), e ora anche quelle militari (fondamentali per evitare incidenti potenzialmente devastanti in zone di sovrapposizione). Tuttavia, spinge sull’asse con Mosca che indispettisce Washington e indispone l’Europa. Valutazione come sintesi estremizzata di tutto ciò fatta da Matt Pottinger e Mike Gallagher: “Gli Stati Uniti non dovrebbero gestire la competizione con la Cina; dovrebbero vincerla”.
In tutto questo, va tenuto in mente il contesto tracciato da un lavoro prodotto allo Yusof Ishak Institute di Singapore: dai dati emerge che, per la prima volta nella storia, sempre più persone nel Sudest asiatico preferiscono che i loro paesi si allineino con la Cina piuttosto che con gli Stati Uniti. La fonte dello studio è autorevole e il risultato è un’indicazione chiave non solo per Washington, ma anche per Paesi teoricamente terzi alla competizione diretta che scelgono di avventurarsi nella strategia indo-pacifica dialogando con gli attori regionali e non solo (perché in qualche modo riguarda una percezione condivisa anche nel Global South, e non solo in quello asiatico).