La minaccia Houthi non si sta fermando, il ritmo degli attacchi cresce e la milizia yemenita rafforza anche le postazioni di attacco. Sta emergendo la necessità di aumentare l’impegno operativo su un livello di difesa-proattiva al fine di depauperare le capacità del gruppo e dissuaderlo a continuare la destabilizzazione dell’Indo Mediterraneo
Nave Virgilio Fasan non ha nemmeno fatto in tempo a prendere consegna come nuova ammiraglia dell’operazione “Aspides” che ha subito avuto il battesimo del fuoco. “Il 29 aprile, la ITS Fasan, mentre forniva protezione ravvicinata a una MV (prefisso navale che indica in forma generica una motonave, nel caso era un cargo, ndr) nell’ambito dell’operazione Aspides nel Mar Rosso, ha respinto con successo numerosi attacchi provenienti dai territori controllati dagli Houthi, nello Yemen. Durante questa operazione di protezione, il Fasan ha abbattuto un veicolo aereo senza pilota con il suo cannone da 3 pollici”, spiega la comunicazione ufficiale del comando della missione europea. Nota nella nota: ancora una volta la Marina colpisce con efficacia utilizzando il cannone Oto Melara, un’eccellenza italiana, come spiega l’analista Filippo Del Monte.
Il ritmo operativo continua dunque, incessante. La destabilizzazione delle rotte indo-mediterranee, avviata dagli Houthi nel novembre scorso, prosegue. La scorsa notte, gli americani hanno distrutto un barchino-drone che “rappresentava una minaccia imminente per gli Stati Uniti, le forze della coalizione e le navi mercantili nella regione”, dice il Pentagono. Ancora prima, il 29 aprile, tre missili balistici anti-nave sono stati sparati contro il cargo greco Cyclades, e un drone aereo era stato distrutto mentre si dirigeva verso la zona in cui navigavano due assetti americani (la USS Laboon e la USS Philippines Sea). Il 28 aprile sono stati abbattuti altri cinque droni e così via: l’elenco è lungo, gli attacchi tenaci. Addirittura il 27 aprile i guerriglieri yemeniti si sono fatti fotografare tra i rottami di un drone Reaper statunitense da 31 milioni di dollari: è il terzo che abbattano dal novembre scorso.
In particolare, dopo un relativo rallentamento a inizio aprile, nell’ultima decina di giorni è cresciuta sia l’intensità che in parte l’efficacia delle azioni degli Houthi. C’è una coincidenza temporale, il ritorno nelle acque del corridoio Suez-Bab el Mandeb della Behshad, una nave iraniana camuffata da mercantile civile e invece usata per attività di intelligence. Si crede che possa essere responsabile dell’assistenza nel targeting agli yemeniti — che fanno parte del network di gruppi combattenti connessi ai Pasdaran, anche se sono il satellite più indipendente di questo che viene definito “Asse della Resistenza”.
Già in passato si era assistito al miglioramento della qualità degli attacchi in coincidenza con la presenza della Behsahd, che spesso staziona nell’area di Bab el Mandeb — anche prima della crisi di sicurezza marittima in corso. Questo ruolo è un segreto di Pulcinella, tanto che la nave che l’ha preceduta in certe attività, la Saviz, nell’aprile del 2021 è stata vittima di un sabotaggio. Qualcuno gli aveva attaccato limpet mine alla chiglia. Sempre stando alle coincidenze, qualche giorno prima nel Mar Rosso si muoveva una sottomarino israeliano — un Classe Dolphin, di quelli dotati di hangar speciale per ospitare gli incursori dello Shayetet-13, a loro volta attrezzati per sabotare navi nemiche senza essere visti.
Nave Fasan, come il Caio Duilio prima di lei (il cacciatorpediniere della Marina aveva precedentemente fatto da ammiraglia ad Aspides e abbattuto a sua volta diversi droni yemeniti), naviga ora in questo teatro ultra complesso, in cui si muovono azioni esplicite e nell’ombra con una certezza: gli Houthi non si stanno fermando. L’idea che il doppio sistema di deterrenza, attacchi anglo-americani (tramite l’operazione “Poseidon Archer”) e difesa europea (con Aspides, e americana con “Prosperity Guardian”) potesse dissuadere in qualche modo gli yemeniti, non sta funzionando.
Sta funzionando in effetti la protezione delle rotte, le attività di scorta continua ai cargo che le risalgono collegando Europa e Asia, ma fin quanto è sostenibile questo genere di attività? C’è un problema di efficacia e anche di costi: l’uso dell’Oto Melara serve per esempio anche ad abbattere le spese operative, permettendo al dispiegamento maggiore durata nel tempo. Ma la difesa collettiva di quelle cruciali rotte euro-asiatiche diventa una spesa – vedere anche degli effetti collaterali, come l’abbattimento di Reaper – che a lungo andare potrebbe essere meno sostenibile, o sostenuta. Anche per questo serve un passo pro-attivo?
Sta emergendo la necessità che serva — soprattutto dall’Europa — un ulteriore sforzo, non solo economico. Nell’aumentare l’impegno si inizia infatti a pensare alla possibilità di passare ad azioni di attacco diretto. Su tutto, pesa l’aspetto politico-culturale, perché diversi Paesi europei potrebbero dover passare per complicate richieste parlamentari, che non sarebbero negoziabili prima delle elezioni e che richiederebbero feedback dalla sferra del consenso. Eppure, il concetto alla base di certe necessità è chiaro: anziché intercettare semplicemente un missile o un drone, si attaccherebbe (come già fanno gli Stati Uniti e il Regno Unito) anche l’infrastruttura che lo ha lanciato. Un processo di difesa-proattiva che eliminerebbe la minaccia alla radice e che probabilmente — se diventasse costante – potrebbe più rapidamente contribuire a depauperare le capacità degli Houthi. E magari dissuaderli e farli fermare.
Anche perché, secondo la più recente valutazione sulle loro dimensioni territoriali, gli Houthi hanno sfruttato la fase innescata per meglio strutturarsi — e dunque aumentare il loro peso negli equilibri interni allo Yemen. Un’analisi dell’IISS basata su immagini satellitari rivela che gli Houthi stanno lavorando per creare nuove e più ampie strutture militari sotterranee. E mentre in passato utilizzavano caverne e tunnel semplici, di recente potrebbero aver costruito installazioni molto più grandi, ristrutturando sia i sistemi di tunnel dell’esercito yemenita (pre-guerra civile), sia costruendo nuove strutture sotterranee completamente nuove. Da lì potrebbero proteggere gli armamenti, rendendo la minaccia ancora più complessa.