La morte del leader del Partito comunista vietnamita Nguyen Phu Trong avrà conseguenze sulla stabilità interna di un Paese fondamentale per Usa, Cina e Ue, e per la nuova globalizzazione
Nguyen Phu Trong è morto. Ex presidente del Vietnam e leader del Partito comunista vietnamita dal 2011, aveva 80 anni, la maggior parte dei quali passati in politica. Era l’uomo più influente del Paese, protagonista tra l’altro della stagione di crescita economica che ha portato Hanoi a essere il centro di una serie di interessi collegati ai progetti di rimodellazione delle rotte geoeconomiche globali. Da tempo al centro dell’Indo Pacifico, attraverso quella che Fabrizio Figiaconi (Csds) definiva “diplomazia del bambù con steroidi”, il Paese del Sudest asiatico è ormai una media potenza e per questo certi sussulti interni hanno un interesse di carattere internazionale.
La morte del segretario Nguyen avrà “importanti implicazioni per la Cina, gli Stati Uniti, la globalizzazione e l’equilibrio di potere in Asia”, commenta Isaac Stone Fish, Ceo di Strategy Risks, società che consiglia governo e privati su rischi e dinamiche geopolitiche della regione. Noto per la campagna anti-corruzione “fornace ardente” — in base alla quale, dal 2016, più di 139.000 membri del partito sono stati puniti per corruzione, una repressione così vasta che è stata criticata per gli impatti socio-culturali negativi, con funzionari diventati riluttanti a firmare ordinante per paura di essere accusati di illeciti — la sua mancanza crea un vacuum di potere. Al punto che c’è la possibilità che la successione — non definita, momentaneamente in mano al presidente To Lam dopo che ieri era stato annunciato il ritiro del leader per l’aggravarsi irreversibile delle sue condizioni di salute — possa produrre un periodo di instabilità. Fase che a sua volta potrebbe avere effetti sugli investimenti internazionali nel Paese — che secondo l’Ufficio generale di statista sono cresciuti del 4,5% nell’ultimo anno, seguendo un trend innescato anche grazie a Ngyuen.
Investimenti che attirano sia occidentali che cinesi, o russi e indiani, perché il Vietnam ha dimostrato di essere in grado di parlare con tutti e poter giocare un ruolo geostrategico singolare che ancora gli permette un multi-allineamento pieno. “Esistono grandi opportunità per nostre imprese. Vogliamo rafforzare cooperazione economica con un Paese con cui abbiamo forti rapporti di amicizia”, diceva pochi giorni fa il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani, dopo aver accolto alla ministeriale del G7 Commercio anche Hanoi — ulteriore dimostrazione di come il Paese abbia acquisito centralità.
Centralità diplomatica e pratica acquisita anche grazie alle capacità di Nguyen di creare negli ultimi anni relazioni sia con Joe Biden che con Xi Jinping e Vladimir Putin. Attività che adesso, nella fase di successione, potrebbero essere messe in discussione e alterate da chi intende posizionare maggiormente Hanoi secondo interessi pratici o ideologici, ed essere oggetto di campagne di interferenza esterne.
Il Vietnam è stato visto come una destinazione confortevole per trasferire le fabbriche internazionali dalla Cina (nell’ottica del de-risking) e, a seconda di quanto l’esecutivo di Hanoi riuscirà a inviare segnali di stabilità, ciò potrebbe cambiare. Allo stesso tempo, il sistema di governo del Vietnam è probabilmente il sistema al mondo più simile a quello cinese: “Osservare come il Vietnam gestisce questo periodo permetterà di capire cosa potrebbe accadere in Cina se il 71enne Xi Jinping dovesse morire inaspettatamente o se perdesse il potere”, dice Stone Fish (accedendo indirettamente ai rumors che del leader cinese colpito da un ictus durante le riunioni del Terzo Plenum di questi giorni).