Durante il G7 Esteri e i Med Dialogues la posizione italiana su Kyiv è stata chiarita, mentre sul conflitto che coinvolge Israele ci sono oscillazioni differenti. In quell’area, dopo l’arrivo dell’Ifd al fiume Litani, potrà essere determinante il ruolo del saudita Bin Salman. Oltre che, per entrambi gli scenari bellici, l’orientamento del presidente Usa, Donald Trump. Conversazione con il vicepresidente della Commissione Difesa, Piero Fassino
I conflitti sono a un bivio. Tanto l’Ucraina, sul cui sostegno si è espresso in maniera estremamente chiara il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani in occasione del G7 esteri e dei Med dialogues, quanto in Medio Oriente su cui però le posizioni di governo e forze politiche più in generale sono più sfumate. La grande variabile, dice a Formiche.net Piero Fassino, deputato del Partito Democratico, vicepresidente della Commissione Difesa alla Camera e tra i più lucidi analisti delle dinamiche geopolitiche, è legata alle posizioni che verranno espresse dal neo presidente degli Usa, Donald Trump, all’indomani del suo insediamento.
Fassino, partiamo dal fronte ucraino. In che modo potrà cambiare – in un senso o in un altro – la direzione del conflitto la presidenza americana di Trump?
Stando alle sue dichiarazioni, l’obiettivo di Trump è quello di arrivare alla risoluzione del conflitto in brevissimo tempo. Addirittura in 24 ore. Per cui, Putin cercherà di forzare la mano e di conquistare più terreno possibile fino al giorno dell’insediamento di Trump in modo da rivendicare – nel caso di una trattativa – le sue conquiste. Non dimentichiamo che Putin ha già annesso i territori occupati nel Donbass e il suo obiettivo, perseguito con violenta determinazione, è espandere il più possibile la conquista di territorio ucraino.
Il tentativo di Zelensky di sedere a un tavolo delle trattative proponendo come “merce” di scambio la Crimea, dunque, sfuma?
Non so se quello scambio sia in grado di placare gli appetiti di Putin, che fin dal 2014 ha nelle sue mani la Crimea annessa alla Federazione Russa. Per cui lo zar si siederà al tavolo negoziale solamente se verrà accettato che i confini tra Russia e Ucraina non possono essere quelli del 2022 e devono corrispondere alla annessione russa del Donbass. Il timore degli ucraini è che Trump – pur di arrivare alla risoluzione del conflitto – possa avallare quella rivendicazione.
Europa e Italia, però, hanno una posizione inequivocabile sul sostegno all’Ucraina.
Per la verità anche in Europa ci sono sensibilità differenti. L’Italia e l’Unione Europea fino ad oggi hanno assunto una posizione corretta e coerente, ribadita anche durante il G7, consapevoli che sostenere politicamente e militarmente l’Ucraina è essenziale perché Kyiv possa contenere l’avanzata russa e sedersi a un tavolo negoziale con rapporti di forza equilibrati. L’interrogativo è se l’Italia è l’Europa manterranno quel sostegno anche qualora Trump si esprimesse in maniera differente. E come sappiamo Putin ha anche in Europa amici che sostengono le pretese russe.
Arriviamo al Medio Oriente. Idf ha – dopo 24 anni – raggiunto il fiume Litani e questo, per il versante libanese, è un passaggio fondamentale. Cosa accadrà ora?
Siamo forse alla vigilia dell’annuncio di una tregua sul fronte Nord. L’esercito israeliano è giunto al fiume Litani, liberando il territorio illegalmente occupato dai miliziani di Hezbollah. Ed è importante che il ministro degli esteri libanese abbia detto a chiare lettere che l’esercito di Beirut è pronto a schierarsi accanto a Unifil per presidiare l’area e impedire a Hezbollah di rioccuparla.
Uno scenario completamente diverso rispetto a quello che si sta verificando a Gaza.
Esattamente. Ed è per questo che spero che il cessate il fuoco libanese possa in qualche modo favorire uno “effetto traino” anche per il conflitto a Gaza, dove la guerra ha provocato un così alto numero di vittime e distruzioni che si impone finalmente il cessate il fuoco. Anche per liberare gli ostaggi che ancora sono nelle mani di Hamas. Uno scenario in cui Trump potrebbe giocare un ruolo fondamentale. Per tre ragioni differenti.
Quali ?
Il suo rapporto solidissimo con Netanyahu lo mette nelle condizioni – se lo vuole fare – di convincere il leader israeliano ad arrivare a una soluzione di pace con i palestinesi. In secondo luogo Trump avendo promosso gli Accordi di Abramo ha un forte credito sia verso Israele, sia verso il mondo arabo moderato. E in terzo luogo Trump ha un ottimo rapporto con il leader saudita Bin Salman. Altro personaggio che potrebbe rivestire un ruolo chiave nella risoluzione del conflitto in Medio Oriente.
E che ruolo potrebbe avere il principe saudita?
Innanzitutto è il leader del Paese arabo più forte e di maggiore peso politico. Ma soprattutto potrebbe farsi da garante per entrambe le parti: convincendo Israele ad accettare la creazione di uno Stato palestinese e in cambio facendosi garante che Israele sia riconosciuto dai suoi vicini e la sua sicurezza non sia messa a rischio.
Due popoli e due Stati non è una soluzione facilmente percorribile.
Certamente, dopo il massacro del 7 ottobre e un anno di guerra così dura è una soluzione difficile. Ma proprio per questo serve un “atto forte” che dinamizzi lo scenario. Azzardo un parallelismo. Il presidente egiziano Sadat, alla fine degli anni ’70, ebbe il coraggio di stipulare l’accordo di pace con Begin, sancendo un nuovo rapporto con Israele che tutt’ora – fra alti e bassi – regge. Bin Salman è la personalità del mondo arabo che può fare la stessa cosa: mettersi in campo per garantire ai palestinesi uno stato proprio e garantire a Israele che quello Stato non sia un pericolo per quello ebraico.
Però il mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale contro il presidente israeliano non aiuta certo a creare la condizione favorevole a un’ipotesi di trattativa. Non trova?
Se si vuole raggiungere una risoluzione ragionevole del conflitto occorre tenere separati il piano strettamente giudiziario da quello eminentemente politico.
È pur vero che, più che sull’Ucraina, il conflitto in Medio Oriente fa registrare diverse oscillazioni nelle sensibilità politiche, oltre che dell’opinione pubblica, con pericolose derive antisemite.
L’asprezza del conflitto ha determinato l’emersione di un vasto movimento Pro-Pal, che si regge per lo più su letture manichee e unilaterali dei fatti e propala informazioni distorte e parole d’ordine criminalizzanti, con parole d’odio che favoriscono il diffondersi di pulsioni antisemite. Questo, inevitabilmente, condiziona anche il dibattito politico.
Un esempio concreto di distorsione dei fatti?
Spesso si sente parlare degli “oltre quarantamila civili morti a Gaza”. Naturalmente anche una sola vittima suscita giustamente dolore. E fermare la guerra è indispensabile perché non ci siano altre vittime e distruzioni. Ma si omette di dire che l’Onu ha certificato in 8100 le vittime civili. I morti sono molti di più perché una ampia parte sono miliziani di Hamas. Molti dei quali hanno partecipato al massacro del 7 ottobre. E certo terroristi combattenti non possono essere considerate innocenti vittime civili.