Gli attori privati statunitensi come SpaceX e Blue Origin dominano il mercato della New Space Economy. Invece in Europa si avverte un ritardo strutturale. Il Vecchio continente si trova a dover ancora colmare un divario crescente con potenze come Stati Uniti e Cina, con il rischio di dipendere da altri per progetti di esplorazione spaziale e sicurezza orbitale. L’intervista a Marcello Spagnulo, ingegnere ed esperto aerospaziale
Mentre il settore spaziale globale vive una nuova età dell’oro, trainato dai miliardari della Silicon Valley, l’Europa fatica a tenere il passo, con aziende storiche in crisi e un apparato istituzionale frammentato. In un contesto dominato da colossi come SpaceX e Blue Origin, l’Esa cerca di rilanciare il ruolo europeo puntando su strategie di collaborazione e innovazione, necessarie per colmare il divario con le potenze extra-europee. Ne abbiamo parlato con Marcello Spagnulo, ingegnere ed esperto aerospaziale.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un sensibile rilancio del settore spaziale e dall’emergere di attori che fino a poco tempo fa erano praticamente inesistenti. Addirittura, è notizia recente che un player storico come Boeing starebbe valutando di vendere i suoi asset spaziali, in controtendenza con un momento in cui il settore è così in crescita. Cosa è accaduto e chi sono oggi gli attori che guidano questo rilancio e con quali progetti di punta in questa fase?
Credo che bisognerebbe leggere la situazione attuale, e quella del recente passato, con uno sguardo realistico, voglio dire che quello che viene chiamato “sensibile rilancio del settore spaziale e l’emergere di nuovi attori” è di fatto un’evoluzione politica, industriale ed economica che vede i sistemi spaziali molto più pervasivi di quanto non lo fossero nei decenni passati e, soprattutto, molto più performanti tecnologicamente. Quest’evoluzione è detta New Space economy e viene vista come un rilancio quando invece, andando a vedere sotto la superfice mediatica, è una situazione che presenta due caratteristiche seminali: la prima è l’accresciuto carattere geopolitico degli assetti spaziali e la seconda è quello economico, anch’esso aumentato sensibilmente e soprattutto più integrato con importanti settori merceologici terrestri.
E cosa significa per l’Europa e l’Italia?
Cogliendo l’essenza di questi due aspetti non possiamo non notare che in Europa questo “rilancio” ci riguarda in misura assai relativa. Al di là degli investimenti delle agenzie spaziali, dov’è il treno ad alta velocità della Space economy nel nostro continente? Guardiamo per esempio il mondo delle telecomunicazioni commerciali, è praticamente monopolizzato da Starlink della SpaceX, e gli operatori satellitari basati in Europa reggono su ciò che resta del broadcast Tv ma scricchiolano sempre di più. Per non parlare poi delle aziende manifatturiere di cui parleremo dopo. L’emergere di imprenditori privati statunitensi provenienti dalla Silicon Valley – o comunque da quella cultura – è il prodotto della comunione di intenti tra il requisito di potenza geopolitica degli Stati Uniti e la fame imprenditoriale dei tycoons, ben integrata da tecnologie all’avanguardia e da ingenti capitali finanziari. Al punto che ne hanno fatto le spese persino i colossi tecnologici storici appaltatori del Pentagono, come Boeing. Un caso incredibile quello della crisi dell’azienda che ha visto affondare la propria credibilità sia nell’aeronautica (con i problemi del 737) e sia nello spazio (con la capsula Starliner e il razzo Sls, entrambi fonti di ritardi e sovraccosti). Già mesi fa il Wall Street Journal aveva riportato indiscrezioni su discussioni in corso tra la Boeing e altre società (la Blue Origin di Bezos, la Sierra Nevada) per vendere assetti societari legati allo spazio e forse le cose si delineeranno meglio nei prossimi mesi con la nuova amministrazione della Casa Bianca, chiunque essa sia.
Chi sono i nuovi attori di questa situazione?
Elon Musk su tutti. Adesso se ne accorge anche il New York Times che pubblica un editoriale in prima pagina per lanciare l’allarme nell’affidare a una singola azienda, SpaceX, la politica spaziale civile e militare statunitense. L’allerta del quotidiano – da sempre schierato col partito democratico – è a mio modesto avviso non poco influenzata dall’endorsement di Elon Musk a Donald Trump, ma al di là di ciò nei fatti oggi la Nasa, e soprattutto il Pentagono, hanno limitate alternative allo strapotere della SpaceX. I razzi e le astronavi di Musk funzionano mentre quelli di Boeing e Lockheed (SLS, Orion, Starliner) hanno diversi problemi, tecnici ed economici. Ma attenzione, non c’è solo Elon Musk. Sebbene la Blue Origin di Jeff Bezos sia ancora indietro rispetto a SpaceX, moltiplicherà gli sforzi per il razzo New Glenn, per la costellazione Kuiper e per la stazione spaziale Bleu Reef. E non c’entra nulla la competizione personale tra due miliardari egocentrici, quanto la fretta di spartirsi assetti orbitali (frequenze e orbite) per sviluppare infrastrutture di monopolio commerciale.
E nel resto del mondo?
Non possiamo non citare il mondo cinese e la crescita di aziende spaziali private. Parlare di privato riguardo alla Cina potrebbe far sorridere perché lì tutto è coordinato dal Partito Centrale, ma si tratta di un ecosistema industriale effervescente che ha visto nascere negli ultimi anni oltre cento aziende che hanno raccolto circa sei miliardi di dollari di finanziamenti (cito qui fonti dell’Esa). Anche se questo budget rappresenta una piccola percentuale dei 35 miliardi di dollari stimati di entrate annuali dei giganti dell’industria spaziale di stato (Casc e Casic,) sta comunque a dimostrare la vivacità del settore che sviluppa razzi e satelliti riusabili, piattaforme di lancio mobili su mare, e innovative infrastrutture spaziali. Recentemente il governo centrale ha “aperto” il sito di lancio ad Hainan, sinora riservato alle missioni istituzionali, anche alle compagnie private per ospitare sino a dieci diversi tipi di lanciatori.
Airbus ha dichiarato che intende tagliare 2.500 posti di lavoro per riconfigurare la sua divisione Space and Defense. Sono inoltre al vaglio degli accordi per una fusione con Thales Alenia Space. Quali sono le possibili implicazioni di queste manovre?
Purtroppo, prima dell’annuncio dell’Airbus Defence and Space era stata la volta della Thales Alenia Space che mesi fa aveva annunciato un piano di ristrutturazione che al momento coinvolgerebbe i siti francesi e belgi. Quindi è evidente che gli accordi per una fusione tra i due costruttori di satelliti sono la conseguenza di una crisi economica e industriale che ormai è diventata quasi insostenibile (come abbiamo accennato prima) e le implicazioni di una fusione sono chiare. Sono quelle che conducono all’eliminazione di attività complementari, riduzione di effettivi, focalizzazione dei siti produttivi e in generale un complessivo restringimento di quello che è il perimetro occupazionale. Poi, intendiamoci, questi annunci servono anche a mettere pressione alla politica per intraprendere delle azioni di sostegno, cioè il finanziamento di grandi progetti infrastrutturali che possano dare una prospettiva manifatturiera alle aziende.
Quali, per esempio?
È il caso del progetto Iris2 della Ue, definito in modo un po’ velleitario il concorrente europeo di Starlink, e fortemente voluto proprio da Airbus D&S e Thales Alenia Space. Ricordiamo che mesi fa il quotidiano francese La Tribune, aveva rivelato che le due aziende avevano scritto ai partner del progetto e alla Commissione per tirarsi fuori dal consorzio SpaceRise (che comprendeva appunto costruttori e operatori) adducendo rischi finanziari per la sostenibilità futura del progetto. Nei fatti l’industria punta a essere un semplice fornitore di satelliti a servizio degli operatori e non più un co-partner di quest’ultimi nell’impresa. Un’ovvia strategia per avere fondi europei dedicati solo alla costruzione di satelliti, ma se ciò può essere comprensibile dal lato meramente manufatturiero, leggiamolo con una lente più generale.
Cioè?
Come si fa a non vedere un parallelo con quanto sta accadendo in Europa nel settore, per esempio, dell’automotive dove player cinesi e statunitensi hanno innovato producendo nuove automobili a propulsione ibrida ed elettrica che stanno sconvolgendo il mercato europeo. Per quanto la propulsione elettrica possa avere ancora degli svantaggi e quindi non riuscire comunque a sostituire del tutto quella endotermica, le conseguenze di questa rivoluzione industriale ed economica globale si fanno sentire in Europa e lo vediamo con la caduta dei profitti delle case automobilistiche tedesche, francesi e italiane, cioè di chi aveva dominato gli ultimi decenni sia il mercato interno che l’export. Al punto che riemergono i rumours su una possibile fusione tra Renault e Stellantis, addirittura con un possibile patto a tre con Bmw per creare l’Airbus dell’automotive.
Qual è il bilancio di tutto questo?
Io vedo un parallelo significativo e quanto mai stringente con il settore spaziale dove due grandi costruttori a guida francese e a compartecipazione tedesca e italiana, si sono spartiti negli ultimi tre decenni un mercato interno e uno di export per grandi satelliti di telecomunicazione, ma ora sono andati in crisi perché SpaceX ha innovato sia il modo di accedere allo Spazio e sia quello di fare telecomunicazioni. Cosa che in Europa non solo non è stata fatta ma neanche immaginata. In questo contesto globale dubito che inseguire Starlink attraverso Iris2 e fondersi in un’unica azienda possa essere una strategia vincente nel medio-lungo periodo, quantomeno nel mercato commerciale.
In un’intervista rilasciata al The Economist, Josef Aschbacher, direttore generale dell’Esa, ha dichiarato che “l’Europa deve giocare per vincere” e ha parlato anche della necessità di puntare sul leapfrogging per colmare i gap attuali con gli altri attori spaziali, sottolineando la necessità di investire di più e aumentare le collaborazioni tra gli Stati membri. È questa la via da seguire? E laddove questo fosse possibile, su quali ambiti dovrebbero concentrarsi gli investimenti?
Questa domanda è in effetti il logico proseguo delle considerazioni precedenti. Una volta delineato lo scenario e analizzate le cause, endogene ed esogene, che lo hanno prodotto, qual è la strada da intraprendere? Il fatto è che una nuova strada non la troviamo dietro l’angolo, va pensata una strategia che faccia una sintesi soddisfacente con le politiche dei diversi governi. Il capo dell’Esa dice “leapfrogging” che letteralmente vuol dire “fare il salto” però non si capisce bene dove saltare; anche perché, se poi le politiche (per esempio la governance) e le strategie (per esempio “facciamo come Nasa e SpaceX”) non cambiano, forse qualche dubbio esistenziale andrebbe posto.
Il dubbio, allora, è se siamo sicuri di aver ben compreso il contesto storico in cui ci troviamo?
Il divario finanziario, militare e tecnologico tra le due sponde dell’Atlantico e tra la Ue la Cina, è ormai diventato imbarazzante per la sua enormità. È dunque venuto il momento di ripensare con le pinze del realismo il concetto di “autonomia tecnologica europea”. Anche perché il resto del mondo va avanti. L’India sta per inviare nello spazio una sua astronave per i futuri astronauti indiani; l’Arabia Saudita e gli Emirati ambiscono a crescere investendo sia nel programma Artemis e sia nel programma lunare sino-russo; il Giappone spenderà più di due miliardi di dollari per una sua rete satellitare militare di tracking e comunicazioni; la Corea del Sud dispone ormai di tecnologia missilistica spaziale e non fa mistero di voler sviluppare armamenti nucleari.
E l’Europa?
Il mantra nel nostro continente è “spendere di più, meglio e tutti insieme” ed è la giusta ambizione ma la sua applicazione in concreto equivale a mettere d’accordo 27 governi (22 in Esa) con le rispettive agenzie spaziali nazionali, due agenzie spaziali europee (Esa e Euspa) e una neocostituita direzione generale Difesa e epazio della Commissione di Bruxelles. Un bel dilemma. E infatti si procede a tentoni. Forse il leapfrogging andrebbe fatto in primis su questa frammentazione di governance mettendoci mano in modo deciso; anche se su questo tema sembra essere di fronte a un “vasto programma”, eufemismo per missione impossibile, qualcosa va fatto altrimenti si resta drammaticamente indietro.
Quindi non c’è soluzione?
Poiché personalmente non mi riconosco negli approcci dove si dice solamente che tutto va male, tendo sempre a elaborare una pars costruens che non sia però espressione di idilliaci desideri quanto ancorata a riscontri possibili. Sarebbe auspicabile – anche perché possibile – la creazione di un’agenzia europea, di fatto un’Esa con nuovo statuto, che si occupi di scienza e R&S, garantendo agli Stati membri il giusto ritorno e diventando di fatto il backbone tecnologico del settore accademico e industriale, con programmi ambiziosi e di lungo periodo, e soprattutto con collaborazioni internazionali strategiche. Il fallout commerciale, eventuale, se lo gestiranno le società o le accademie una volta sviluppati i mattoni tecnologici.
Poi, occorre un programma applicativo strategico, di lungo periodo, sfidante, e che non sia una copia tardiva di quanto già fatto da altri. Se guardiamo a cosa ha creato di buono l’Europa nello spazio (e non è poco) non possiamo non menzionare la rete di satelliti per l’osservazione della Terra, un filone da mantenere e far evolvere magari provando a coinvolgere altre nazioni extra-Ue (si chiama Space diplomacy). Ma andando al di là di ciò e riflettendo sul fatto che si parla ormai di spazio come di un dominio “contested, congested and conflictual”, ci si potrebbe chiedere come usare al meglio le capacità europee per creare una rete di osservazione globale, satellitare e terrestre, non solo per la Terra ma anche per lo Spazio.
E per quanto riguarda il settore militare, dove pure l’Europa sta investendo?
L’Europa non sta sviluppando assetti spaziali di offesa e deterrenza come stanno facendo altri Paesi, ma potrebbe ergersi come player mondiale dotandosi di un’infrastruttura multi-orbita con funzioni di sentinella globale. In qualche modo i prodromi si intravedono nel progetto Ue chiamato Space situation awareness che stenta però a prendere forma concreta. Invece, un programma di questo tipo andrebbe visto un po’ come lo Scudo stellare di Ronald Reagan degli anni Ottanta, ma senza l’elemento “weapon”. Occhi nello Spazio e sulla Terra. Uno sforzo enorme per una rete Space & Ground Based dove la tecnologia spaziale si integra con la sensoristica a terra, il cloud computing, i data server, l’intelligenza artificiale e la cyber-sicurezza. Ai lettori potrebbe apparire illusorio e finanche fantascientifico, ma ricordo che solo dieci anni fa chiunque avesse detto che si sarebbe potuto immaginare un razzo di settanta metri con trentatré motori che rientrava sulla rampa di lancio preso letteralmente “al volo” da due bastoncini retrattili, sarebbe stato preso per pazzo. E invece è successo pochi giorni fa con il quinto volo della Starship di SpaceX.
In un momento in cui gli altri ambiscono a mandare gli astronauti sulla Luna e, domani, su Marte, gli astronauti del Vecchio continente continuano ad appoggiarsi ad attori extra-europei, addirittura privati (come SpaceX). L’Europa dovrebbe cominciare a puntare seriamente sulle sue capacità di voli spaziali con equipaggio? E, se sì, come?
Penso proprio di sì. E bisogna dire che Esa ha avviato da un anno gli studi per un programma europeo, l’unico a mio avviso davvero innovativo, che va in questa direzione ed è il Leo Cargo Return Service fortemente sostenuto da Samantha Cristoforetti, la quale avendo volato sulla Iss nel 2014 a bordo della Soyuz e poi nel 2022 a bordo della Crew Dragon di SpaceX, ha vissuto in prima persona quel rivoluzionario cambio di paradigma industriale di cui riempiamo pagine di analisi col nome di New space economy. La forza di tale consapevolezza dovrebbe fornire anche ai decisori politici quella spinta strategica verso una capacità spaziale autonoma senza la quale tra non molto l’Europa dovrà pagare società private per i propri astronauti. In principio, comprarsi un passaggio nello spazio su base commerciale potrebbe andar bene per un singolo paese o per un’azienda, ma non può valere per un ente federatore come Esa. Domanda: che interesse avrebbe un paese a investire i suoi soldi in un’agenzia che poi paga una società statunitense, russa, indiana o cinese per trasportare i suoi astronauti, magari proprio su una stazione spaziale anch’essa di proprietà delle medesime società.
In definitiva, secondo lei vale la pena investire risorse e prendere dei rischi per avere in Europa questa autonomia tecnologica e strategica?
Le risposte non sono semplici, ma ci sono. Poi chiunque può accettarle o respingerle, però quantomeno andrebbero ponderate. Diciamo anzitutto che un programma spaziale di questo tipo sarebbe di certo un grande volano per sviluppare tutto un corollario di aspetti quali la crescita tecnologica nei settori più innovativi, dai materiali alla biomedicina e tanto altro; quindi, c’è in concreto un portato del tema della competitività europea, intesa non solo come industria ed economia ma anche come formazione accademica. E questo, opportunamente declinato, già sarebbe sufficiente ma poi c’è il tema geopolitico.
In che senso?
Qui sarò brutalmente sintetico perché richiederebbe molto spazio; quindi, provo a fare un parallelo. Tutti noi viviamo in una società dove siamo abituati all’uso di beni e di servizi tra i più disparati e che ci sembrano banali perché ne usufruiamo disponendone in abbondanza. Ma tutto ciò ha un costo, quello della sicurezza del traffico commerciale mondiale che avviene su ruota, su aereo e soprattutto per via marina. Il fronte marittimo rappresenta la via fondamentale dell’accesso a risorse e beni di primaria importanza per le nazioni occidentali. E ci sono alcuni tratti che rappresentano dei punti di transito obbligati il cui controllo e difesa sono requisiti di sicurezza economica. Negli ultimi mesi per esempio, diversi paesi europei, tra cui l’Italia, hanno mandato unità della propria Marina militare nel Mar Rosso a supporto di quelle di Usa e Uk già presenti sul posto, con l’obiettivo di proteggere il traffico commerciale dagli attacchi missilistici degli Houthi dello Yemen. Detto ciò, quando tra un po’ di tempo dipenderemo anche da infrastrutture in orbita – cosa che già avviene oggi senza che ce ne rendiamo conto, si pensi alla geolocalizzazione dei nostri smartphone – o quando dovremo gestire insediamenti lunari, chi manderemo a metterle in sicurezza? Senza autonomia ci dovremo affidare ad altri, con tutto ciò che questo comporterà. E se anche questo oggi sembra irrealistico o fantascientifico, invito il lettore a riandare all’esempio di Starship richiamato prima.