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Cina in Libia? Che cosa raccontano i droni in cambio di petrolio

L’inchiesta sul piano cinese di inviare droni armati in mezzo agli aiuti umanitari per il Covid è importante perché conferma la propensione (non solo di Pechino) per l’uomo forte al potere, spiega Profazio (IISS/NDCF), e perché potrebbe dare indicazioni sull’approccio cinese, aggiunge Ghiselli (ChinaMed)

La Cina si è da tempo affermata come promotrice di iniziative globali che ambiscono a presentarla come attore di mediazione e stabilità. Piani come la Global Security Initiative (Gsi) o la Global Development Initiative (Gdi) incarnano questa narrazione, basata su concetti come armonia, sviluppo condiviso e sicurezza collettiva. Tuttavia, rapporti di partnership strategica con Paesi come la Russia, la Corea del Nord o l’Iran — tutti protagonisti di guerre guerreggiate — rendono tale racconto incoerente. La recente vicenda che coinvolge Pechino nel traffico di droni militari verso la Libia rivela ulteriormente un comportamento che si discosta significativamente da queste dichiarazioni di principio, sottolineando un’agenda pragmatica legata a interessi diretti precisi.

Il caso libico, in particolare, evidenzia una dinamica in cui la Cina ha agito con una logica di vantaggio personale, sfruttando un contesto geopolitico complesso e lacerato per perseguire obiettivi specifici: consolidare la propria influenza nella regione mediterranea e garantirsi un accesso privilegiato alle risorse energetiche del Paese. Un approccio che mette in discussione la coerenza tra la narrazione strategica cinese e le sue azioni sul campo.

Il dossier libico: violazioni dell’embargo Onu e traffico di droni

Secondo rivelazioni fatte a settembre da Defense News e corroborate questo mese dal Telegraph, la Cina è accusata di aver orchestrato, tra il 2018 e il 2021, un’operazione per fornire droni militari al generale Khalifa Haftar, leader dell’Esercito Nazionale Libico (Lna) e figura chiave nel conflitto che ha spaccato il Paese nordafricano nell’ultimo decennio — conflitto che tra l’aprile 2019 e l’ottobre 2020 ha mirato al rovesciamento del Governo di accordo nazionale, sponsorizzato dall’Onu e insediato a Tripoli grazie al lavoro di sicurezza e protezione politico-diplomatica italiana. Come rivelato da un’inchiesta canadese, il piano prevedeva la consegna di 92 droni camuffati come aiuti per combattere la Covid-19, aggirando le sanzioni delle Nazioni Unite attraverso l’uso di società di facciata registrate nel Regno Unito, in Egitto e in Tunisia.

L’obiettivo dichiarato era “usare la guerra per terminare rapidamente la guerra”, accelerando la vittoria di Haftar, e dunque il rovesciamento con la forza dei piani onusiani. Questo avrebbe garantito a Pechino un ruolo privilegiato nelle future ricostruzioni e nell’acquisto di petrolio a prezzo scontato. La vicenda è emersa attraverso documenti giudiziari in Canada e intercettazioni dell’Fbi, che hanno portato alla luce la complessità dello schema, in cui avrebbero avuto un ruolo anche intermediari legati a istituzioni internazionali come l’Icao, International Civil Aviation Organization (agenzia dell’Onu con sede a Montreal), che prende da tempo posizioni pro-Pechino, per esempio escludendo Taiwan dal suo sistema).

Un caso parallelo: il sequestro di droni a Gioia Tauro

Un ulteriore elemento da considerare è il sequestro, avvenuto a luglio 2024, di due droni militari cinesi nel porto italiano di Gioia Tauro. I droni, diretti a Bengasi e nascosti tra componenti per turbine eoliche, sono stati individuati grazie a alla collaborazione tra l’Italia e l’intelligence statunitense.

Questo episodio, pur dimostrando l’esistenza di un traffico attivo di droni cinesi verso la Libia, non è chiaro se possa essere direttamente collegato allo schema descritto dall’inchiesta canadese. È possibile che si tratti di un’operazione separata o di una prosecuzione del piano di fornitura di armamenti alla fazione di Haftar. Tuttavia, l’incertezza sul collegamento rafforza l’idea di una Cina coinvolta a vario titolo in operazioni ibride e in violazione dell’embargo Onu.

L’importanza strategica dei droni nel contesto libico

I droni hanno giocato un ruolo centrale nel conflitto libico, segnando una svolta nelle dinamiche militari del Paese. Durante la guerra 2019-202, il Gna, sostenuto dalla Turchia e dal Qatar, ha utilizzato droni Bayraktar TB2 turchi per colpire basi e asset strategici del Lna. Dall’altra, Haftar e i suoi alleati (Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia) hanno fatto affidamento proprio sui Wing Loong II cinesi, equipaggiati con tecnologie avanzate e probabilmente pilotati dagli emiratini (possibili possessori dei mezzi).

Questa “guerra dei droni” ha dimostrato l’importanza di tali tecnologie nei conflitti moderni, non solo per il loro impatto tattico ma anche per la loro capacità di influenzare gli equilibri geopolitici. L’eventuale invio di nuovi droni cinesi rappresenterebbe un potenziale rischio di escalation: se infatti le parti si dovessero sentire in grado di poter vincere uno scontro armato, potrebbero essere più portate ad aprirne uno. È questa la ragione per cui l’Unione europea ha lanciato “Irini”, l’operazione per controllare il rispetto dell’embargo militare Onu sulla Libia.

Un’agenda pragmatica dietro la narrazione diplomatica

Se in quest’ottica il comportamento della Cina nel caso libico assume maggiore rilevanza, ulteriore la acquisisce se si inserisce in una tendenza più ampia: il potenziale abbandono di un approccio puramente diplomatico in favore di una strategia pragmatica, orientata alla protezione dei propri interessi, anche perseguendo attività opache dietro i combattimenti. Nonostante l’enfasi su pace e stabilità promossa attraverso iniziative come la Gsi, Pechino sta dimostrando di essere disposta a violare regole internazionali per garantire vantaggi economici e geopolitici?

In Libia, l’invio di droni, mascherato da operazioni civili come aiuti sanitari o turbine eoliche, potrebbe evidenziare un chiaro tentativo di bypassare la legalità internazionale. Questo comportamento contrasta con la narrativa cinese di “neutralità costruttiva” e suggerisce una crescente proiezione di potere nei dossier globali, in particolare nelle regioni strategiche come il Nord Africa.

Implicazioni per la comunità internazionale

“Al netto delle conferme definitive dell’inchiesta — spiega Umberto Profazio, analista dell’IISS e della Nato Defense College Foundation — il comportamento cinese non sarebbe un unicum: diversi attori internazionali presenti sulla scena libica infatti abbinano la dimensione diplomatica, a volte di di facciata, a sostegno delle iniziative multilaterali, come quelle onusiane, con un’inclinazione verso l’uomo forte al potere, che nel caso è incarnato da Haftar”. Profazio ricorda che anche l’Egitto e gli Emirati hanno sostenuto le forze anti-Onu di Bengasi, per non parlare della Russia che ha costruito nell’est libico l’hub per logistico-geopolitico per le sue attività nell’Africa centro-settentrionale.

“C’è un certo sbilanciamento che potrebbe essere anche alla base della continuazione dell’instabilità”, aggiunge l’analista. Il fatto che la Cina sia, o sia stata, in qualche modo parte di tali dinamiche è l’elemento nuovo della questione. Pechino aveva inglobato la Libia dell’ex Gna nella Belt & Road Initiative proprio nel luglio 2018, quando il rappresentante del Consiglio presidenziale libico, Mohamed Syala, firmò a Pechino il memorandum d’intesa per l’adesione. La data corrisponde allo stesso periodo a cui si riferisce l’inchiesta canadese, dunque mentre intavolava relazioni con il governo onusiano, il governo cinese forniva assistenza militare al suo nemico?

Per Andrea Ghiselli, responsabile della ricerca del progetto ChinaMed, l’aspetto “singolare e sicuramente degno di nota” che sta uscendo dalle notizie è il coinvolgimento del ministero degli Esteri. “Finché si tratta di società che, anche se di proprietà dello Stato, operano in modo più o meno autonomo, è un conto. Non sarebbe la prima volta che grandi aziende di stato creano problemi alla diplomazia cinese. Però questa sembra essere storia molto diversa se il ministero è stato veramente in contattato diretto con gli attori libici interessati a portare i droni in Libia”. Perché? Cosa significa? “Fermo restando che siamo ancora nel campo delle ipotesi, e dunque non possiamo dare analisi certe, potremmo ipotizzare due situazioni: o è un caso eccezionale di ‘mano destra che non sa cosa fa la sinistra’, molto problematico se si considera che sotto la leadership di Xi Jinping si è lavorato molto sulla centralizzazione, oppure è un cambiamento di policy su cui dovremmo approfondire sulla base di altre evidenze”.

In definitiva, ciò che emerge dalle carte canadesi è “preoccupante”, come lo definisce una fonte delle strutte di sicurezza europee, che ragiona sul caso con discrezione. È la presenza cinese anche nelle questioni securitarie, e nelle attività di guerra guerreggiata, che preoccupa Ue e Usa, sia che si tratti di un cambio di approccio generale, sia che rappresenti differenze nella gestione dei vari dossier da parte delle strutture di Pechino. Il rischio è che la Cina, per spingere la sua narrazione e i suoi interessi strategici, “esca dalla comfort zone del minimo coinvolgimento in certi contesti, abbinando per altro le sue posizioni con quelle della Russia”.


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