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Ecco che fine (non) hanno fatto le “stazioni di polizia” cinesi in Italia

Di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

A gennaio al Viminale si è riunito un tavolo tecnico tra funzionari dei due Paesi per parlare anche delle strutture che, secondo l’ong Safeguard Defenders, svolgono attività illegali di controllo e repressione transnazionale del dissenso verso Pechino. Mastro (Stanford): “Pechino vuole proteggere investimenti e interessi politici”. Harth (Safeguard Defenders): “L’Italia non diventi il ventre molle del G7”

A fine gennaio il Viminale ha ospitato un tavolo tecnico tra funzionari italiani e cinesi per parlare anche delle “stazioni cinesi di polizia d’oltremare”. Dietro la facciata di strutture di supporto amministrativo alle comunità cinesi, questi centri svolgerebbero, secondo quanto ricostruito da una ong, attività illegali di controllo e repressione transnazionale del dissenso verso il Partito comunista cinese e l’agenda della madrepatria.

Secondo un rapporto della ong spagnola Safeguard Defenders pubblicato nel 2022, sarebbero almeno 11 in Italia. Quelle di Milano e Roma sono state definite “progetti pilota” dalle autorità cinesi, una sorta di banco di prova europeo per una strategia di polizia per monitorare la popolazione cinese all’estero e costringere i dissidenti a tornare a casa. Altre sono state rilevate a Prato (dove c’è la più grande comunità cinese d’Europa), Firenze, Bolzano, Venezia e in Sicilia.

Dopo l’uscita dalla Via della Seta

L’incontro al Viminale è avvenuto poche settimane dopo la visita a Pechino di Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, e rientra negli impegni del Piano d’azione triennale per il rafforzamento del partenariato strategico globale siglato l’anno scorso, dopo la decisione del governo italiano presieduto da Giorgia Meloni di non rinnovare il memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative (la cosiddetta Via della Seta) siglato nel 2019 dall’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Il piano prevede, tra le altre cose, il rafforzamento di “scambi” e “cooperazione” nei settori della “lotta contro le sostanze stupefacenti, le frodi (sia nelle telecomunicazioni che in rete), i reati economici e finanziari, l’immigrazione transnazionale clandestina e la criminalità organizzata”.

A dicembre 2022, il ministro Piantedosi, parlando in Aula di queste “stazioni di polizia”, non aveva escluso “provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità” assicurando in Parlamento che avrebbe seguito “personalmente” il caso.

La situazione oggi

Oggi, però, di questi centri, nessuno vuole parlare e sentir parlare. Fonti investigative italiane a Formiche.net sottolineano le grandi capacità di adattamento di queste strutture e comunità: dopo l’eco mondiale ricevuta dal rapporto di Safeguard Defenders, le stesse funzioni vengono ancora svolte, ma con maggior discrezione. E sempre dalle stesse persone, la maggior parte legate alle associazioni di cinesi d’oltremare in Italia e al Fronte Unito, ovvero la rete di influenza globale istituzionalizzata nel moderno partito-stato cinese per promuovere i suoi interessi in tutto il mondo.

Ecco, dunque, che dopo oltre due anni dall’inchiesta, il governo di Pechino non sembra voler cambiare linea: nega qualsiasi attività illecita e sostiene che tali centri siano gestiti da volontari locali e offrano semplicemente servizi amministrativi, come il rinnovo di documenti. Anche al Viminale vengono tenuti toni bassi sulla vicenda. La questione è stata riproposta pubblicamente, dopo la visita di Piantedosi in Cina, da Enrico Borghi, senatore di Italia Viva e membro del Copasir, che aveva commentato: “Non mi pare di ricordare negli ultimi anni un viaggio di un ministro dell’Interno dei Paesi G7 in Cina”. E ancora: “Peraltro il nostro ministro dell’Interno un anno fa doveva lanciare un’investigazione sulle stazioni di polizia cinesi in Italia, di cui non abbiamo saputo nulla”.

Come si sono mossi gli altri

Altri governi hanno deciso un approccio più muscolare. Per esempio, quello canadese ha più volte convocato l’ambasciatore cinese per chiedere spiegazioni. Negli Stati Uniti, invece, c’è stata la prima confessione legata alle “stazioni di polizia” cinesi: quella di Chen Jinping, 60 anni, che a dicembre si è dichiarato colpevole di aver agito come agente non registrato del governo cinese. L’uomo era accusato di aver gestito, insieme al coimputato Lu Jianwang, una “stazione di polizia” clandestina nel cuore di Chinatown, a Manhattan. Ora rischia fino a cinque anni di carcere. È stata la prima ammissione e conferma dell’esistenza di questi centri che l’intelligence cinese ha utilizzato per proteggere illegalmente i suoi interessi e reprimere il dissenso anche fuori dai confini nazionali.

La confessione di Chen riguarda anche l’Italia. L’uomo, infatti, ha dichiarato di aver agito per conto del ministero per la Pubblica sicurezza, in particolare della branca di Fuzhou (capoluogo della provincia cinese del Fujian, che rappresenta il secondo luogo di provenienza dell’immigrazione cinese in Italia). È la stessa che aveva aperto la “stazione di polizia” a Prato, come rivelato a settembre 2022 dal quotidiano Il Foglio. Inoltre, nel 2023 ProPublica aveva raccontato le connessioni tra questo centro e la criminalità organizzata.

La strategia spiegata da Mastro (Stanford)

Secondo Oriana Skylar Mastro, professoressa alla Stanford University ed esperta di Cina, “mentre gli Stati Uniti cercano di costruire influenza politica e relazioni attraverso l’addestramento delle forze armate straniere, la Cina ha invece puntato con forza sul rapporto con le forze di polizia degli altri Paesi”. Mastro osserva che Pechino ha già “formato le forze di polizia di oltre cento Paesi nel mondo” e spiega che “ci sono molte ragioni alla base di questa strategia”. Una delle motivazioni principali, afferma, è la protezione degli interessi commerciali cinesi all’estero. Tuttavia, in molti casi l’obiettivo è anche politico: “La Cina cerca di promuovere un certo tipo di polizia, che non protegga soltanto i suoi investimenti economici, ma anche i suoi interessi politici nei vari contesti nazionali”.

Nei Paesi coinvolti nella Belt and Road Initiative, questa dinamica appare con particolare chiarezza: “Lì è evidente che il focus primario è sulla creazione di ordine e stabilità nei Paesi in cui la Cina ha investimenti significativi”. In queste aree, Pechino si concentra sul rafforzamento della capacità delle forze di polizia locali. Diversa è la strategia adottata nei confronti dei Paesi più sviluppati. Mastro nota infatti che “in questi casi, la cooperazione con le forze di polizia sembra orientata soprattutto a ottenere un certo grado di collaborazione nelle attività di contrasto internazionale”. Un obiettivo centrale sarebbe quello di rintracciare e rimpatriare quelli che la Cina definisce “fuggitivi economici”, cioè individui fuggiti dal Paese per motivi economici o politici. “Nei Paesi sviluppati”, aggiunge, “questo sembra essere il focus principale dei rapporti con le forze di polizia, e spesso tali relazioni includono anche accordi specifici, come trattati di estradizione, che rafforzano la cooperazione in materia”.

I rischi dei pattugliamenti congiunti

Nelle relazioni tra Italia e Cina rimane sul tavolo l’ipotesi di ripristinare dei pattugliamenti congiunti tra forze di polizia. Pechino punta a farlo in occasione dei Giochi olimpici invernali di Milano-Cortina che si terranno tra un anno. Il tutto, sulla base del memorandum firmato nel 2015. A siglarlo, come ricordava il quotidiano Il Foglio, fu Liao Jinrong, direttore generale del dipartimento per la cooperazione internazionale del ministero della Pubblica sicurezza cinese, lo stesso che in un’intervista al Quotidiano del popolo nel 2017 disse che “i tentacoli della sicurezza” cinese si estenderanno ovunque ci sia una “violazione degli interessi nazionali”. L’ultimo pattugliamento di poliziotti cinesi in Italia, disarmati ma muniti di bodycam per le registrazioni audio-video, risale a prima del Covid-19, ovvero a dicembre 2019.

Un addetto ai lavori spiega che esistono almeno tre motivi per cui i pattugliamenti congiunti Italia-Cina sul territorio nazionale possono presentare un rischio per la sicurezza nazionale. Primo: il riconoscimento politico della polizia cinese. Secondo: possono facilitare attività di ingerenza come l’intimidazione dei concittadini cinesi che vivono in Italia. Terzo: possono rappresentare piattaforme operative per funzionari che sono accreditati (e dunque hanno una copertura) sul territorio italiano.

Il commento di Laura Harth (Safeguard Defenders)

“Non sorprende affatto l’affermazione che le stesse funzioni di ‘servizi’ vengono ancora svolte da individui e organizzazioni solitamente associati al Fronte Unito e legati non soltanto ai dipartimenti di pubblica sicurezza cinesi, ma anche ai sistemi giudiziari, di affari esteri, educazione e ricerca, eccetera”, dice Laura Harth, China in the World Director di Safeguard Defenders. “È invece notizia il fatto che a quanto pare – e contrariamente alle dichiarazioni sottoscritte dall’Italia stessa in quanto presidente del G7 l’anno scorso – esse non vengono trattate come illegali di per sé, in quanto violano palesemente le Convenzioni di Vienna e la sovranità nazionale. Semplice equivoco o continuo offuscamento politico?”, aggiunge.

“Dopo aver avuto il dubbio onore dei progetti pilota delle stazioni di polizia cinesi, l’Italia stia attenta a non diventare di nuovo il ventre molle di un G7 sempre più propenso ad agire con forza contro la repressione transnazionale e le interferenze cinesi”, continua l’attivista. “Non è che si pensi di dover ancora lusingare l’ego ferito di Pechino per l’uscita della Via della Seta, legalizzando per esempio tali ‘servizi’ in stile sud-africano per accontentare le richieste dei frequenti interlocutori cinesi del Viminale?”, conclude.


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