La discussione sulla vendita di droni Reaper tra Usa ed Arabia Saudita è carica di significati strategici: contenere Pechino, rafforzare le alleanze nel Golfo, e promuovere l’industria della difesa americana. Un caso esemplare di come la tecnologia militare diventa strumento di politica estera
Washington e Riad parlano di droni. L’azienda statunitense General Atomics starebbe trattando con il governo saudita riguardo alla vendita di fino a 200 sistemi unmanned d’attacco Mq-9 “Reaper”, all’interno del più ampio contesto dei142 miliardi di dollari di accordi relativi alla difesa stretti in occasione della visita del Presidente Donald Trump nel Golfo durante la scorsa settimana. I dettagli di quanto incluso nel pacchetto non sono state rivelate, ma il portavoce di General Atomics Aeronautical Systems C. Mark Brinkley, ha dichiarato a Breaking Defense che i droni sono parte integrante dello stesso, non specificando il numero esatto ma suggerendo che potrebbe arrivare a toccare le due centinaia. Brinkley ha anche sottolineato come “Un’iniziativa di queste dimensioni creerebbe, secondo le stime, 46.000 nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti e avrebbe un impatto significativo sull’economia americana”.
Ma accanto all’aspetto economico, c’è anche una netta componente politica. Non è certo un segreto che l’Arabia Saudita guardasse con interesse agli Unmanned Aerial Systems made-in-Usa, soprattutto in seguito ad un ammorbidimento di Washington riguardo all’esportazione di questa tipologia di apparecchi avviato già dall’amministrazione Biden nell’estate del 2024. Fino a pochi mesi fa, gli Stati Uniti non volevano fornire al Regno saudita determinate tipologie di armi (droni inclusi) per le posizioni poco rispettose dei diritti civili assunte da Riad, nonché per la paura di un impiego delle armi in questione in aperta violazione dei suddetti diritti civili, soprattutto nel contesto della guerra civile yemenita.
Di fronte a questa reticenza l’Arabia Saudita ha scelto di optare per una risposta articolata su due filoni distinti (ma non completamente sciolti l’uno dall’altro), da una parte avviando lo sviluppo domestico di un’industria unmanned, e dall’altra rafforzando i legami con Pechino, storicamente uno dei principali esportatori di droni nella regione del Golfo Persico. Regalando così ulteriore margine di influenza nell’area all’attore che Washington considera come il suo rivale per eccellenza.
Uno sviluppo che, come si può facilmente prevedere, gli Stati Uniti non apprezzerebbero affatto. L’amministrazione guidata da Donald Trump ha dimostrato verso la penisola araba un rinnovato interesse che si riflette nell’adozione di un approccio più marcatamente pragmatico, con il Presidente in persona (seguito da una ricca scorta di politici ed imprenditori) che nelle scorse settimane si è impegnato nel già menzionato tour diplomatico nella regione. In questa occasione sono stati diversi i temi affrontati tra Stati Uniti ed attori locali all’interno di un dialogo volto a rafforzare la loro cooperazione. E allo stesso tempo, a limitare la già marcata presenza cinese nell’area. Esemplare in questo senso è l’attenzione alla digitalizzazione e alle tecnologie emergenti, un settore dove Pechino ha una presenza ben radicata nel Golfo, presenza che Washington vuole contrastare ad ogni costo. E le discussioni in corso sulla compravendita dei droni della General Atomics si possono facilmente inquadrare all’interno dello stesso framework.