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Da Unicredit a Mediaset, la partita a scacchi tra Roma e Berlino

In occasione della messa di inizio pontificato di papa Prevost, il premier Meloni incontrerà il neo-cancelliere tedesco Merz. Sul tavolo l’attivismo di Mediaset e Unicredit sul fronte tedesco, che rappresenta senza dubbio una partita direttamente connessa ad altri dossier piuttosto caldi e che rispondono al nome di Difesa e industria automobilistica

Due economie molto simili, due finanze pubbliche diverse. E, in mezzo, una partita a scacchi, le cui pedine rispondono al nome di Unicredit, Mediaset, Difesa e automotive. Germania e Italia sono forse un caso più unico che raro in un mondo che cambia passo ogni giorno. Il minimo comun denominatore è la vocazione, storica, alla manifattura e all’impresa. La frattura, questa quasi culturale, sta invece nella gestione delle finanze pubbliche. Tanto ordinata e marziale Berlino, quanto disinvolta Roma. Certo, pandemia e guerre hanno ribaltato in parte gli equilibri, con il risultato che oggi l’Italia cresce più della Germania.

Questo però non toglie che con un disavanzo inchiodato al 60% del Prodotto interno lordo, Berlino può oggi permettersi il lusso di una extra spesa pubblica di centinaia di miliardi, persino per finanziare il proprio riarmo. Cosa che l’Italia non può fare, dovendo ricorrere per forza di cose all’Europa, alias eurobond, alias debito comune. In mezzo, un’interconnessione fortissima: non c’è Germania senza Italia, e viceversa, visto che quest’ultima ha nel mercato tedesco il suo principale sbocco commerciale europeo. L’una, insomma, non può fare a meno dell’altra.

UNA PARTITA A SCACCHI (A SAN PIETRO)

Ed eccoci alla poc’anzi citata partita a scacchi, con lo sfondo di San Pietro, crocevia della diplomazia mondiale in questo frangente storico. Venti giorni fa erano stati Volodymyr Zelensky e Donald Trump a incontrarsi, su due sedie approntate alla buona sotto il Cupolone, nel tentativo di gettare le basi di una possibile, ma ancora molto difficile, pace tra Ucraina e Russia. Ora, forse più comodamente, con più tempo e con argomenti più leggeri, ma non per questo meno delicati, saranno Giorgia Meloni e Friedrich Merz a guardarsi negli occhi, lontani da quelli di chi pensa ancora che per governare l’Ue basti ancora oggi il mitologico direttorio franco-tedesco. E lo faranno proprio poche ore prima della messa di inizio pontificato di Papa Robert Francis Prevost, domenica 18 maggio.

Forse è prematuro capire e sapere con certezza quali saranno i temi al centro del bilaterale di sabato tra la premier italiano e il successore di Olaf Sholz, fresco di nomina al cardiopalma (Merz è stato eletto alla seconda votazione in parlamento, dopo un primo, clamoroso knock out) a cancelliere. Ma, sforzandosi un po’ si può provare a buttare giù un taccuino. Ci sono almeno quattro dossier aperti e fortemente legati tra loro. E su cui i due leader potranno trovare la sintesi, a patto che tutte le caselle vadano al loro posto. Si parla di imprese, commercio, industrie, comunicazione e risparmio. In due parole, di interessi nazionali. E dunque, di Unicredit e di Mediaset, ma anche di dazi, automotive e Difesa. Con i primi due connessi ai secondi. Come a dire, risolvere o quanto meno provarci, queste ultime tre questioni, potrebbe giovare alle prime.

TRA BANCHE E TELEVISIONE

Il piatto forte potrebbe essere Unicredit, in accoppiata a Mediaset. I cui destini dipendono, come detto, da altre due partite, di cui si parlerà nello specifico più avanti. Partendo proprio dal versante bancario, la miccia del risiko bancario italiano, improvvisamente risorto lo scorso anno, è l’assalto di Piazza Gae Aulenti a Commerzbank, secondo istituto tedesco finito in piena pandemia a un passo dalle nozze con Deutsche Bank. Si tratta di un istituto strategico per la Germania, dalla natura cooperativa e per questo molto legato ai territori, ovvero ai Lander. Per le piccole e medie imprese tedesche, a differenza di Deutsche Bank, che è una banca d’affari, Commerzbank è sempre stata un punto di riferimento.

Da quando Unicredit, impegnata anche nell’assalto, oggi però ancora nel guado, a Banco Bpm, ha cominciato a scalare la banca teutonica, arrivando al 28% (di cui il 18,5% però in derivati) a Berlino si sono innervositi, cominciando a temere per la nazionalità e l’identità dell’istituto (va detto che Unicredit è comunque ben radicata in Germania). Tensione aumentata sensibilmente all’indomani della decisione, sia della Bce, sia dell’Antitrust, di permettere a Gae Aulenti di salire fino al 29,9% del capitale. Berlino, dunque Merz, continua a vigilare. E anche l’Italia.

L’altra trincea è rappresentata dai media. E qui il baricentro si sposta a Cologno Monzese. Con il lancio dell’Opa da parte di Mfe-Mediaset su Prosieben, il gruppo guidato da Pier Silvio Berlusconi e di cui per l’appunto fa parte Mediaset, ha proposto 5,74 euro per azione Prosieben, con 4,48 euro in contanti e 0,4 azioni proprie di tipo A. Un’operazione, fanno notare alcuni ambienti, dal grande valore industriale e finalizzata ad allargare le spalle del secondo gruppo radio televisivo europeo per numero di famiglie raggiunte, con sede in Baviera. Mossa che rientra nel progetto di Mfe di costruire un gruppo media paneuropeo, a partire proprio da Prosieben di cui possiede il 30,09% del capitale, una quota aumentata a metà aprile dal precedente 29,99%.

Ma ecco che qualcuno ha deciso di alzare la contraerea e provare a sbarrare la strada a Mediaset. Ppf, gruppo ceco controllato dagli eredi del miliardario Petr Kellner e attualmente azionista (tra azioni e derivati) con il 15% di Prosieben, ha lanciato infatti un’offerta parziale per salire fino al 29,99%. Mettendo sul piatto 7 euro per azione. Un muro che ha tutta l’aria di essere più uno sgambetto a Mediaset o una semplice difesa di Prosieben, più che una mossa realmente votata alla creazione di valore. 

IL FRONTE DELL’AUTOMOTIVE

Queste due partite intrecciano poi quella dell’industria automobilistica e quella della Difesa. Da quando il motore a scoppio è stato inventato, le imprese italiane riforniscono i costruttori tedeschi di tecnologia e componentistica. Ed è ancora così. Senza i pezzi delle fabbriche tricolori, in Germania non si fanno le auto. Ora il momento è delicato, per tutte e due. Le case tedesche sono uscite distrutte dalla micidiale combinazione guerra-Cina. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto impennare il costo dell’energia in Germania, Paese privo del nucleare, con poche rinnovabili (complice il clima non proprio favorevole) e per questo legato a doppio filo alle forniture di gas e petrolio russe.

Il conflitto ha scoperto insomma il fianco debole della Germania, rendendo le imprese tedesche esposte alle fluttuazioni dei prezzi: energia più cara, più difficile mantenere i livelli di produzione. Poi ci si è messa in mezzo la Cina, con la concorrenza spietata sulle auto elettriche. I costruttori tedeschi non erano pronti a una simile pressione da parte delle case del Dragone, che producono più veicoli e li vendono an prezzo minore. Non ultimo, anche il Green new deal ha contributo ad affossare il settore su scala Ue, con l’impossibilità dei costruttori di rispettare i target di emissioni e, soprattutto, l’eliminazione dalle linee produttive dei motori a benzina e diesel. Tanto Roma, quando Berlino, hanno dunque fatto sentire la loro voce finora a Bruxelles per un allentamento dei vincoli, perché crisi tedesca vuol dire crisi italiana. Non riuscendoci, almeno per ora. Di sicuro, però, conviene tanto a Roma, quanto a Berlino, tentare tutte le strade per salvare un comparto così strategico per ambedue le economie.

IL FATTORE DIFESA

Ed ecco la Difesa. Anche qui le sinergie non mancano. La Germania è in pieno riarmo e per assicurarsi la migliore qualità industriale, sta lavorando gomito a gomito con Roma. Basti pensare alla partnership tra Leonardo e Rheinmetall che ha preso forma nella joint venture Leonardo Rheinmetall Military Vehicles (Lrmv), che avrà sede legale a Roma e impianto produttivo a La Spezia.

La nuova società è destinata a diventare il centro nevralgico per la produzione dei veicoli blindati di nuova generazione che equipaggeranno le forze terrestri italiane. Il carro Panther KF-51, sviluppato da Rheinmetall, costituirà la base tecnologica del futuro corazzato italiano. Ma è soprattutto il modello di cooperazione a rappresentare un elemento di discontinuità, con una chiara ripartizione delle competenze, un’equa distribuzione dei carichi industriali e, soprattutto, un cliente, l’Esercito italiano, che ha già formalizzato le proprie esigenze operative.

D’altronde, Berlino punta decisamente forte sul piano da 900 miliardi per il proprio riarmo. Una Germania che, mentre cerca di lasciarsi alle spalle la monocultura dell’auto, riposiziona la propria industria al centro delle grandi filiere strategiche continentali. E questo grazie a un piano decennale di investimenti, con cui Merz intende riassumere quel ruolo politico ed economico che era prevalso in Europa, riposizionandosi con un ruolo centrale e influente anche nella difesa e nella nuova flessibilità di bilancio, a discapito della Francia. È un investimento significativo e impegnativo, in controtendenza rispetto ai disinvestimenti degli anni passati cha hanno causato molte criticità nella postura di difesa di Berlino, è in continuità con la tendenza di crescita del fondo speciale Sondervermögen da cento miliardi, ma in esaurimento. Ora palla a Meloni. E Merz.

L’OCCHIO DEL GOLDEN POWER

Quando si parla di Difesa, inevitabilmente il discorso rischia di incrociare la normativa sul golden power. E l’asse italo-tedesco non fa eccezione. Un esempio. Da alcuni mesi, Iveco Defence Vehicles, la divisione militare del gruppo Iveco, controllata da Exor, è al centro di un acceso confronto industriale e politico. Dopo l’annuncio della volontà di scorporare Idv in vista di una valorizzazione o quotazione in Borsa entro fine 2025, è partita la fase delle offerte preliminari. E la prima mossa pubblica è arrivata da Leonardo, in cordata con la tedesca Rheinmetall, che lo scorso 8 maggio ha formalizzato un’offerta non vincolante

Ogni attuale e futura offerta per acquistare Idv, per quanto forte, si scontra con una questione delicata: la tutela dell’interesse nazionale. Idv è infatti classificabile come asset strategico, e per questo soggetto al Golden Power, il potere che consente al governo di bloccare o condizionare acquisizioni in settori sensibili. Finora, Palazzo Chigi non ha espresso preferenze, ma indubbiamente la proposta Leonardo-Rheinmetall porterebbe in dote il fatto che, in caso di acquisizione effettiva, buona parte della produzione resterebbe sul territorio nazionale, magari in sinergia con la nuova joint venture Leonardo Rheinmetall Military Vehicles (Lrmv).

Ma il Golden Power non è solo uno scudo, è anche un mezzo di negoziazione. Il governo può usarlo per orientare le trattative, condizionare eventuali cessioni e proteggere la filiera nazionale. La concorrenza estera, specie quella spagnola, potrebbe sollevare preoccupazioni legate al trasferimento di know-how, impianti e occupazione all’estero. In questo senso, il Golden Power sarà l’ago della bilancia che determinerà l’esito finale, ma anche lo strumento con cui Exor, oggi alla ricerca del miglior offerente, cercherà di spuntare un prezzo più alto.

C’è infine un secondo caso. La società franco-tedesca Knds, nata dalle nozze tra Kmw e Nexter, due dei principali produttori europei di sistemi terrestri militari, ha intentato una causa contro Triton Partners per costringerlo a vendere le sue azioni nel gruppo tedesco Renk, che produce trasmissioni per carri armati come il Leopard 2. Al momento il Tribunale Regionale di Francoforte si è schierato dalla parte di Triton. Tuttavia, quest’ultimo ha rifiutato di consegnare le azioni, sostenendo che mancava l’autorizzazione del governo italiano visto che Renk possiede una filiale in Italia. In tal proposito, Knds ha presentato al governo italiano una richiesta di esenzione dal Golden Power, che rappresenta una condizione sospensiva per l’accordo. Ma da Palazzo Chigi non sarebbe arrivata ancora una risposta. Senza l’approvazione, l’Italia potrebbe successivamente imporre condizioni o addirittura ordinare l’annullamento.

CACCIA ALL’ACCORDO SUI DAZI

Di certo, nel colloquio si parlerà anche di dazi. Tanto la Germania, quanto l’Italia, non possono permettersi una guerra commerciale contro gli Stati Uniti. La prova è nella telefonata tra Merz e Trump, pochi giorni fa, in occasione della quale il cancelliere si è congratulato con il presidente americano per il raggiungimento dell’accordo con la Cina. Merz ha auspicato una soluzione win-win, ma su scala europea. Ovvero un accordo tra l’Unione e gli Usa, finalizzato all’azzeramento dei reciproci dazi.

Una visione condivisa anche dal premier Meloni, che già a metà aprile si era recata per una visita lampo a Washington, nel tentativo, riuscito, di sminare il terreno e aprire un varco per un accordo commerciale. D’altronde, sia la Germania, sia l’Italia, sono due nazioni che vivono di export. E per Roma, la posta vale quasi 650 miliardi di euro (dati del 2024). Tanto basta a presupporre una certa convergenza verso una tregua in scia a quando già visto con Regno Unito e Cina. Tregua che anche a Bruxelles vogliono fortemente. L’Europa, d’altronde, è ancora ancora il mercato unico a cielo aperto più importante del mondo. Un avvitamento sui dazi, non gioverebbe a nessuno. Nemmeno agli Stati Uniti.


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