Il centrosinistra è stretto in una morsa. Da un lato, i casi giudiziari che toccano amministratori chiave come Beppe Sala a Milano e Matteo Ricci nelle Marche, dall’altro il pressing crescente di Giuseppe Conte, che alza il tono sulla questione morale e cerca di ridefinire i rapporti di forza nel campo largo. Mentre Elly Schlein, tra ispirazione movimentista e pragmatismo obbligato, si muove con cautela, sperando in un ritorno alla “normalità”. Ma il quadro, secondo quanto dice a Formiche.net il politologo Massimiliano Panarari, è tutt’altro che normale
Il centrosinistra è stretto in una morsa. Da un lato, i casi giudiziari che toccano amministratori chiave come Beppe Sala a Milano e Matteo Ricci nelle Marche, dall’altro il pressing crescente di Giuseppe Conte, che alza il tono sulla questione morale e cerca di ridefinire i rapporti di forza nel campo largo. Mentre Elly Schlein, tra ispirazione movimentista e pragmatismo obbligato, si muove con cautela, sperando in un ritorno alla “normalità”. Ma il quadro, secondo quanto dice a Formiche.net il politologo Massimiliano Panarari, è tutt’altro che normale.
Panarari, partiamo dal quadro d’insieme: quale nodo strategico sta bloccando il campo largo?
Il nodo di fondo è strutturale: il Movimento 5 Stelle è una spina nel fianco del Partito democratico. Il Pd ragiona con un approccio aritmetico, convinto che la somma con i 5 Stelle porti voti. Ma con una forza populista come i pentastellati la somma spesso non fa il totale. Conte non è interessato a sommare, ma a sottrarre: vuole aumentare i propri voti a spese del Pd, non costruire un’alleanza simmetrica.
E sul piano strategico?
Conte ha un obiettivo chiaro: massimizzare il suo potere di veto. Vuole mantenere le mani libere, soprattutto nei confronti dell’ala riformista del Pd, che considera troppo lontana. Accetta candidati comuni solo a fronte di un ritorno politico molto forte. Più turbolenza c’è nel centrosinistra, più si alzano le sue quotazioni per un’eventuale nuova candidatura a Palazzo Chigi – o quantomeno per impedire che sia Schlein a guidare la coalizione.
Un’operazione costruita anche sulla questione morale?
Sì, Conte cerca di capitalizzare le ambiguità del Pd sul piano giudiziario. Si pone come il partito delle toghe, in piena continuità con l’impostazione giustizialista. Difende senza se e senza ma l’operato della magistratura, sfruttando lo scontro tra politica e giustizia per rilanciarsi come soggetto di rottura. Ma sa di non poter spezzare del tutto la corda dell’alleanza. È il gioco di “CamaleConte”: cambiamento di pelle continuo, ma con un istinto di sopravvivenza lucido.
Il caso di Matteo Ricci nelle Marche si inserisce in questo schema?
È emblematico. Le inchieste giudiziarie, a prescindere dall’esito, hanno un effetto dirompente perché la macchina della giustizia ha tempi incompatibili con quelli della politica. Finiscono spesso per azzoppare i candidati. E questo, in un’epoca di campagna elettorale permanente, può cambiare gli equilibri prima ancora delle urne. Conte sa che ogni passo falso del Pd su questo terreno può trasformarsi in un dividendo per lui.
E la posizione di Elly Schlein?
Schlein è ispirata da una cultura movimentista, ma si sta dimostrando pragmatica nella conduzione del partito. Cerca di tenere basso il volume su tutto ciò che contraddice la sua narrazione di rinnovamento. Non è ancora riuscita a rompere realmente con i “cacicchi” locali, né a imprimere una svolta sulla linea della legalità. Il caso Sala ne è la prova: un posizionamento più netto l’avrebbe spinta a chiedere le dimissioni. Ma sarebbe stato un terremoto. Ha scelto il male minore, ma questo la espone all’accusa di ambiguità.
Intanto, anche il centrodestra si muove in modo ambivalente sul fronte giustizia…
Sì, il centrodestra ha costruito un’identità garantista, ma oggi usa la giustizia a corrente alternata. Quando è utile colpire l’avversario politico, non si fa scrupoli. Alla fine prevale sempre il calcolo elettorale. Lo scontro tra politica e magistratura, in fondo, conviene a tutti: consente di polarizzare il dibattito, nascondere le difficoltà interne, mantenere viva la mobilitazione. Ma questa spirale ha un costo enorme: impoverisce la qualità democratica e alimenta la sfiducia.
Dopo Tangentopoli, però, qualcosa è cambiato nell’opinione pubblica?
Senz’altro. Oggi non è più automatico che un’indagine distrugga una carriera. Gli elettori sono meno inclini a identificare il magistrato con la verità assoluta. Ma resta il fatto che l’inchiesta diventa un’arma politica. E in questa guerra permanente, le regole del garantismo vengono spesso messe da parte.
Quindi siamo destinati a convivere con questo conflitto?
Almeno nel breve periodo sì. Il conflitto tra politica e giustizia è diventato una leva strutturale. Chi lo alimenta, da un lato o dall’altro, lo fa perché ci guadagna. Ma a lungo andare è un gioco pericoloso, che mina la credibilità delle istituzioni. E da cui sarà difficile uscire, se non cambiando radicalmente logiche e leadership.