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L’Europa tra conflitto congelato e toni bellicisti in Ucraina. L’opinione di Pellicciari

Rinviare a tempo indeterminato la chiusura del conflitto appare oggi il male minore, per le opportunità che offre sul piano narrativo, politico ed economico. L’opinione di Igor Pellicciari, Università di Urbino Carlo Bo

Il recente summit di Copenaghen ha riproposto il divario tra una crescente retorica bellica verso la Russia e risultati operativi pressoché nulli (vedi il progetto drone wall). Ha cristallizzato l’orientarsi delle leadership europee verso un conflitto congelato in Ucraina, combattuto più sul piano politico e comunicativo che militare. Rinviare a tempo indeterminato la chiusura del conflitto appare oggi il male minore, per le opportunità che offre sul piano narrativo, politico ed economico.

Damage control

Sul piano narrativo, il conflitto congelato consente di evitare due ammissioni politicamente insostenibili: l’affermazione militare della Russia e il fallimento dell’originario Project Ukraine, concepito a Washington ben prima dell’invasione come strumento di logoramento strategico di Mosca. Riconoscerlo oggi annullerebbe anni di mobilitazione politica e mediatica, aprendo un deficit di credibilità per le istituzioni europee e atlantiche che su quella narrativa hanno costruito consenso interno. D’altro canto, il mantenimento di un conflitto “aperto ma gestito” permette un esercizio di damage control narrativo che eviti di prendere atto dell’esito bellico appunto perché formalmente ancora in corso.

Diversivo politico

Sul piano politico, si assiste al classico ricorso alla crisi esterna come strumento per deviare l’attenzione dai problemi interni. Dal Regno Unito di Keir Starmer, alla Francia di Emmanuel Macron, alla Germania di Friedrich Merz: non a caso, i Paesi più attivi nel Gruppo dei Volenterosi sono anche quelli con la maggiore fragilità politica interna. Eccedere in critiche verso questa strategia è ingeneroso, poiché è uno degli schemi più ricorrenti nella storia delle relazioni internazionali, a cui pochi si sono sottratti, in nome della scelta del male minore per guadagnare tempo e sopravvivere politicamente. Come ricordava Giulio Andreotti, “meglio tirare a campare che tirare le cuoia.”

Anabolizzante economico-finanziario

Sul piano economico, il conflitto congelato è, in primo luogo, una forma di sospensione finanziaria del rientro degli asset russi congelati. Finché la guerra è in corso, la restituzione può essere rinviata ad libitum: un’opzione tanto più utile oggi, in piena recessione europea, quando centinaia di miliardi, pur immobilizzati, continuano a generare rendimenti e la loro restituzione peserebbe come un colpo sulla già fragile stabilità finanziaria dell’Unione. Vi è poi un calcolo industriale più esplicito che punta ad utilizzare la tensione bellica per riposizionare l’economia dal motore civile al motore bellico. Deviando risorse pubbliche verso il comparto militare, nel tentativo di “anabolizzare” la crisi economica generale e compensare la deindustrializzazione in settori classici. Basti dire che in Germania, negli ultimi mesi le azioni di Rheinmetall, principale gruppo della difesa, sono salite di oltre il 42%, mentre il settore automobilistico nel mese di agosto ha registrato un crollo del 18,5%.

Crisi delle narrative

Il problema è che, rispetto al passato, il contesto interno e internazionale è radicalmente mutato e rischia di vanificare o distorcere lo sperato effetto diversivo della strategia “conflitto congelato + toni bellicisti”. Sul fronte interno, la guerra in Ucraina è stata la prima guerra delle narrative pienamente immersa nell’era dei social media e dei flussi informativi continui su piattaforme digitali, su tutte YouTube e X. In larga parte incontrollabili, queste offrono, h24, chiavi di lettura alternative che, vere o false che siano, minano le versioni ufficiali e consolidano la diffidenza verso le narrative istituzionali. È un nuovo infosistema che intercetta un sentimento popolare sintetizzato nello slogan “basta bugie” (che ha sostituito il “basta corruzione” degli anni Novanta) e si alimenta della ricerca di contenuti percepiti come autentici. Ne deriva una tendenza a smascherare l’uso strumentale dei vecchi schemi politici, come il divert the attention, erodendo dall’interno le narrative ufficiali che li giustificano. Ad esempio, l’attuale infosistema social tende a interpretare la tensione tra Parigi e Mosca come il prodotto di un espediente politico di Macron per recuperare consenso dopo il crollo della sua legittimità interna. Nella stessa chiave, il recente appello del premier dimissionario Sébastien Lecornu al presidente francese perché resti in carica “per via della situazione internazionale” è stato immediatamente percepito come un artificio politico, più che come un atto di responsabilità istituzionale.

Il rischio esterno

Sul fronte internazionale, la strategia “conflitto congelato + toni bellicisti”, può diventare pericolosa perché sottovaluta la percezione che ne è il principale destinatario. Potenza con un military mindset radicato e una storia costruita sul mito della difesa esistenziale, la Russia si rifà a una dottrina strategica che fatica a distinguere tra retorica bellicista e intenzione operativa. Tanto più in tempo di guerra. A questo contribuisce una differenza strutturale spesso ignorata: Mosca non possiede la cultura politica delle democrazie occidentali, abituate a separare le dichiarazioni politiche da quelle istituzionali e a contestualizzarle in base al momento in cui vengono pronunciate. Se in Occidente è normale che leader che si insultano in campagna elettorale poi siedano nello stesso Consiglio dei ministri, nel contesto russo una simile dissociazione è difficile da accettare. Ne consegue che ogni parola pronunciata da un vertice istituzionale occidentale viene interpretata come posizione ufficiale di Stato. A marzo 2022, un semplice riferimento di Joe Biden al tema nucleare fu sufficiente per attivare al Cremlino il protocollo di risposta automatica, con l’ordine di Vladimir Putin a Sergej Shoigu e Valery Gerasimov di porre le forze di deterrenza in “modalità speciale di combattimento”. Ugualmente oggi, un linguaggio bellico occidentale usato come surrogato politico per un conflitto congelato potrebbe trasformarsi in un detonatore (o peggio, in un acceleratore) di un conflitto militare reale con l’Europa. Lo ha ricordato di recente l’ambasciatore russo a Parigi (ed ex in Italia) Aleksey Meshkov, tutt’altro che un falco, avvertendo che il solo evocare l’abbattimento di un Mig russo equivale a un atto ostile, preallertando Mosca a una risposta automatica e militare.

Dai fatti alle parole?

Tutto suggerisce che gli svantaggi del “conflitto congelato + toni bellicisti” superino di gran lunga i benefici. Immaginare, a guerra in corso, di poter passare dallo scontro dei fatti a quello delle parole è un azzardo strategico. Il tentativo di evocare solo a parole una realtà peggiore, potrebbe anticiparne la realizzazione. Nel più classico dei ricorsi storici.


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