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Dove finisce l’acqua inizia il conflitto. E il jihadismo si insinua. Scrive Bertolotti

Ogni pozzo, ogni condotta, ogni bacino diventa un terreno di confronto e competizione invisibile, in cui il jihadismo, la criminalità e la disperazione si incontrano e si fondono. Una competizione, in contesti caratterizzati da debolezza istituzionale e disuguaglianza sociale, che gioca un ruolo di catalizzatore per l’insorgenza o la radicalizzazione di gruppi armati non statali.  L’analisi di Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight

L’acqua è indubbiamente una risorsa strategica al pari del petrolio, ma più precaria e contesa. Nelle regioni del Nord Africa, del Mediterraneo e del Sahel la progressiva riduzione delle risorse idriche non è soltanto un problema ambientale, bensì un fattore di sicurezza nazionale e regionale, in grado di ridefinire equilibri politici e militari. L’intreccio tra crisi idrica, crescita demografica e instabilità alimenta un terreno fertile per attori non statali, che sfruttano la dipendenza delle popolazioni dall’acqua per estendere la propria influenza e costruire consenso sociale. Nei contesti in cui lo Stato è debole o assente, si formano “zone grigie” alla mercé di attori non statali e l’acqua assume il ruolo di leva strategica: chi la controlla, controlla la vita. È in questa dinamica che gruppi jihadisti, milizie e organizzazioni criminali hanno trovato spazio per radicarsi, imponendosi come fornitori di sicurezza, accesso alle risorse e giustizia in territori abbandonati dalle istituzioni.

Nel Sahel, dove la desertificazione avanza a ritmo doppio rispetto alla media globale, i conflitti per la gestione dei pascoli e delle risorse idriche si saldano con le agende ideologiche del jihadismo. In queste aree, l’appartenenza religiosa o etnica diventa una lente attraverso cui si rileggono antiche rivalità economiche, trasformando lo scontro per l’acqua in un conflitto identitario. È qui che la sovrapposizione tra scarsità idrica e vuoti di governance ha favorito l’insediamento di formazioni jihadiste come Boko haram, l’Islamic State’s west Africa province, Jama’at nasr al-islam wal-muslimin e al-Qa’ida in the land of the islamic Maghreb, i quali si sono spesso impossessati di fonti d’acqua strategiche per esercitare controllo territoriale e legittimazione sociale.

Le falde del Niger, del Ciad e del Mali non sono solo riserve naturali, ma nuovi fronti di competizione ed epicentro di instabilità tra milizie, eserciti regolari e popolazioni civili. Il Niger, con una crescita demografica del 3,8% annuo – secondo i recenti dati Cia – vive una condizione di stress idrico estremo: oltre venti milioni di persone hanno accesso limitato a fonti sicure. Nel 2023, secondo l’Acled, la Nigeria ha registrato oltre 2200 attacchi jihadisti, concentrati soprattutto nel Borno, regione devastata dalla desertificazione e dal collasso del lago Ciad, ridotto di oltre il 90% dal 1960. Qui, la scarsità d’acqua ha alimentato rivalità tra comunità e favorito il reclutamento jihadista, facendo dell’accesso alle risorse una moneta di scambio per sicurezza e sopravvivenza.

Sul versante nordafricano, la pressione idrica aggrava la fragilità delle istituzioni e alimenta le tensioni interne. In Libia, il “grande fiume artificiale” è simbolo della militarizzazione dell’acqua. Secondo i dati di Unsmil del 2023 – la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia – tra il 2020 e il 2023 si sono registrati 47 attacchi contro infrastrutture idriche, spesso utilizzate da milizie – come la Tareq Bin Ziyad – per estorsioni e pressioni politiche. Inoltre, la gestione diseguale delle risorse idriche agisce da detonatore politico in tutta l’area; in Tunisia, in particolare, nel biennio 2022-2023 si sono contati oltre 40 blocchi stradali legati alla mancanza d’acqua, mentre in Algeria, le disuguaglianze di accesso nei distretti agricoli di Ouargla e Biskra alimentano tensioni sociali e sfiducia verso lo Stato. In questo scenario, la minaccia del terrorismo idrico – intesa come uso strategico dell’acqua per il controllo territoriale e la coercizione delle popolazioni – si impone come una delle nuove frontiere della sicurezza nel XXI secolo.

La scarsità d’acqua non genera automaticamente conflitti, ma amplifica le fragilità preesistenti; e così, ogni pozzo, ogni condotta, ogni bacino diventa un terreno di confronto e competizione invisibile, in cui il jihadismo, la criminalità e la disperazione si incontrano e si fondono. Una competizione, in contesti caratterizzati da debolezza istituzionale e disuguaglianza sociale, che gioca un ruolo di catalizzatore per l’insorgenza o la radicalizzazione di gruppi armati non statali. Ma anche golpe, colpi di stato e militarizzazione della gestione idrica sono da considerare come conseguenze ulteriori delle difficoltà legate all’accesso alle risorse idriche.

In Niger e Mali, i recenti golpe (2021 e 2023) sono stati giustificati anche con l’incapacità dei precedenti governi di garantire i servizi essenziali, inclusa l’acqua. Le giunte militari al potere hanno così promosso progetti infrastrutturali per trovare legittimità. In Egitto, la gestione del bacino idrico fossile Nubian sandstone aquifer system è sotto il controllo delle forze armate, e le tensioni con Sudan ed Etiopia per la Gerd (Grand Ethiopian Renaissance Dam) si riflettono nella crescente attenzione strategica verso i bacini acquiferi. Secondo il Sipri (2023), nel biennio 2020-2022 l’Egitto ha incrementato del 35% le spese per la protezione delle infrastrutture idriche. L’acqua è il nuovo campo di battaglia invisibile: non scorre più soltanto nei fiumi o nei condotti, ma tra le faglie della sicurezza, della sopravvivenza e del potere. Dove finisce l’acqua, inizia il conflitto e il jihadismo, come la sabbia del deserto, si insinua proprio lì.

Analisi pubblicata su Formiche 218


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