Si chiude con il discorso della premier un’edizione da record di Atreju. Una rassegna che, sempre di più assomiglia a una festa nazionale in cui si fa a gara per partecipare. Schlein ha sbagliato a non andare, Conte si è legittimato come partner decisivo del campo largo. Meloni rafforza la sua leadership, sempre più internazionale. Colloquio con il politologo dell’Università della Tuscia, Luigi Di Gregorio
Prima non era una festa. Ora è un rito. Prima era un appuntamento identitario. Ora è un passaggio obbligato. Atreju cambia pelle insieme a Giorgia Meloni e, mentre l’opposizione si interroga sul “se” e sul “come” partecipare, la premier incassa, allarga e capitalizza. In controluce, più che una kermesse di partito, sembra un termometro dello stato della politica italiana (e internazionale). Formiche.net ne ha parlato con Luigi Di Gregorio, politologo dell’Università della Tuscia, per decifrare significati, errori e mosse strategiche di una settimana che ha detto molto più di quanto sembrasse.
Atreju, edizione da record. Finalmente si è trovata la ricetta giusta?
Più che di ricetta, parlerei di “status”. È stato un record perché segue esattamente la parabola di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia. La crescita è direttamente proporzionale. Meno Atreju diventa una festa di partito, più diventa una festa nazionale. Non a caso non campeggiava il nome di FdI. È un segnale politico chiarissimo: l’idea del “partito della nazione”. E infatti è venuto chiunque. Ormai c’è quasi la gara ad andare. Perciò parlo di “status”.
Un paragone inevitabile è con la Leopolda renziana. Regge?
Fino a un certo punto. La Leopolda era di Renzi, profondamente renziana, costruita intorno alla sua leadership. Atreju oggi è più grande perché non è del leader, almeno formalmente: è di tutti. È un contenitore che supera il perimetro del partito e questo lo rende politicamente più forte.
Elly Schlein ha scelto di non partecipare. Mossa giusta o errore?
Ha sbagliato. Ha fatto una mossa che poteva sembrare furba: cercare una legittimazione da capo dell’opposizione rifiutando il terreno scelto da Meloni. Ma Meloni è stata più furba. Schlein si è incastrata da sola. È stato uno scacco matto. Doveva andare alle condizioni di Meloni, che era pronta anche all’uno contro due. Così invece ha lasciato il campo.
Giuseppe Conte, invece, c’era. E con un certo protagonismo.
Ha fatto bene. Conte ha il problema opposto rispetto a Schlein: deve dimostrare di non essere un junior partner del campo largo. Andare ad Atreju è stato un modo per ribadirlo. Sa sfruttare le occasioni e questa lo era, politicamente parlando.
Il discorso di Meloni: cosa le è sembrato più rilevante?
È stato un discorso lungo, che ha toccato molti temi. Ci sono state le stoccate alla Schlein, certo, ma soprattutto la rivendicazione di alcuni successi e dell’orgoglio della propria storia. Anche il riferimento al referendum sulla giustizia va letto così: un’occasione di mobilitazione nel merito – la giustizia – più che ad personam.
È sembrata una Meloni diversa dal solito?
Sì, perché Atreju è una delle poche occasioni in cui torna la Giorgia Meloni capo partito. Per il resto dell’anno è stata molto istituzionale, molto da presidente del Consiglio. Qui si è concessa di nuovo il ruolo di leader politico puro. Un doppio registro che rappresenta per lei un patrimonio politico importantissimo.
Che effetto ha avuto tutto questo sulla sua leadership?
Questo Atreju rende la sua leadership ancora più sfavillante. Arriva alla fine di un anno in cui la politica estera è stata centrale come mai prima nella storia repubblicana. Meloni sul piano internazionale ha riscosso il massimo del successo possibile. È la prima volta che la politica estera diventa davvero centrale nell’agenda politica italiana. E lei ne è stata la protagonista assoluta.
















