Alla prova dei fatti, il sistema immaginato col Tatarellum ha funzionato. Ha dimostrato che è possibile coniugare rappresentatività e stabilità senza sacrificare la pluralità politica. Se viene ancora citato, è perché molte riforme successive non hanno raggiunto lo stesso equilibrio. Colloquio con Fabrizio Tatarella alla vigilia dell’evento in Senato
Trent’anni dopo, il “Tatarellum” continua a tornare nel dibattito politico ogni volta che l’Italia prova a interrogarsi su stabilità e governabilità. Nato in uno dei passaggi più turbolenti della storia repubblicana, il sistema elettorale regionale del 1995 ha rappresentato una sintesi rara tra mediazione politica e ingegneria istituzionale. Alla vigilia del convegno promosso dalla Fondazione Tatarella al Senato (martedì 16, al quale prenderanno parte, tra gli altri, anche Luciano Violante, Alberto Balboni, Ignazio La Russa e Carlo Calenda), ne parliamo con Fabrizio Tatarella, vicepresidente della Fondazione, per capire perché quella legge – figlia dell’urgenza e del compromesso – resta ancora oggi un punto di riferimento.
Il “Tatarellum” nasce in un clima politico definito da lei stesso “incerto e convulso”. Quanto ha pesato il contesto di emergenza nella qualità finale della legge?
Ha pesato moltissimo, ma in senso positivo. L’urgenza costrinse le forze politiche a concentrarsi sugli obiettivi essenziali, evitando fughe ideologiche. La legge 43 del 1995 è il prodotto di una mediazione alta, costruita in tempi strettissimi, ma proprio per questo ancorata alla realtà del Paese e ai suoi bisogni di stabilità.
Suo zio, Pinuccio Tatarella, fu indicato come relatore di maggioranza per la sua capacità di mediazione. Quanto questa attitudine personale ha inciso sull’impianto della legge?
Pinuccio Tatarella aveva una visione non conflittuale delle istituzioni. Credeva che le regole del gioco dovessero essere condivise, soprattutto quando riguardano la rappresentanza democratica. Il “Tatarellum” è figlio di questa impostazione: nessuna forzatura, ma una sintesi tra istanze maggioritarie e proporzionali.
Uno dei meriti riconosciuti alla legge è l’aver favorito un “bipolarismo plurale”. È un modello che oggi potrebbe ancora funzionare?
È un modello che resta attuale. Il bipolarismo del “Tatarellum” non è mai stato riduttivo o artificiale: non due partiti, ma due coalizioni, capaci di includere pluralità politiche mantenendo però una chiara alternativa di governo. È una lezione utile anche oggi, in una fase di frammentazione del sistema politico.
Il premio di maggioranza e la cosiddetta “norma antiribaltone” sono spesso indicati come i veri pilastri della legge. Perché erano così centrali?
Perché rispondevano a un problema strutturale del nostro Paese: l’instabilità. Il premio di maggioranza garantisce la governabilità, la norma antiribaltone tutela il mandato degli elettori. Insieme spingono i partiti a coalizioni più coese e a patti di governo credibili.
A distanza di trent’anni, il “Tatarellum” viene spesso evocato nei tentativi di riforma delle leggi elettorali nazionali. È nostalgia o mancanza di alternative?
Direi piuttosto riconoscimento. Alla prova dei fatti, il sistema ha funzionato. Ha dimostrato che è possibile coniugare rappresentatività e stabilità senza sacrificare la pluralità politica. Se viene ancora citato, è perché molte riforme successive non hanno raggiunto lo stesso equilibrio.
Il convegno promosso dalla Fondazione Tatarella pone tre parole chiave: stabilità, governabilità, rappresentatività. Sono ancora conciliabili oggi?
Devono esserlo. Il “Tatarellum” dimostra che non sono obiettivi incompatibili, ma complementari. La sfida della politica contemporanea è proprio questa: tornare a pensare le regole come strumenti al servizio della democrazia, non come armi di competizione di breve periodo.
Se dovesse indicare un lascito politico del “Tatarellum” per le nuove generazioni di decisori pubblici, quale sarebbe?
Il metodo. Prima ancora della formula elettorale, il “Tatarellum” insegna che le riforme istituzionali funzionano solo se nascono dal confronto, dal rispetto reciproco e dalla consapevolezza che le regole devono durare più delle maggioranze che le approvano.















