L’inchiesta sul Russiagate e sulle interferenze nelle elezioni presidenziali del 2016, attribuite a Mosca dall’intelligence Usa, prosegue senza sosta.
Un nuovo capitolo dell’indagine condotta dal procuratore generale Robert Mueller si apre proprio oggi presso il tribunale distrettuale di Alexandria, in Virginia, con il primo processo contro Paul Manafort, l’ex numero uno della campagna che ha portato alla Casa Bianca Donald Trump.
LE ACCUSE
Il 69enne Manafort rischia grosso (fino all’ergastolo), ma le accuse a suo carico non sono – almeno per il momento – collegate in modo diretto alle intrusioni russe. Nei suoi confronti pendono invece addebiti di frode bancaria e fiscale, di mancata denuncia di conti bancari all’estero e di aver utilizzato compagnie di facciata per nascondere trasferimenti di denaro. Fra le 35 persone chiamate a testimoniare dall’accusa c’è anche l’ex braccio destro e vice di Manafort, Rick Gates, anch’egli incriminato e, dallo scorso febbraio, collaboratore di Mueller.
IL SECONDO PROCESSO
Non è tutto. Per Manafort – incriminato a ottobre dello scorso anno per le sue attività di consulenza all’estero e di lobbista, e aver violato la norma sugli agenti stranieri Usa – è previsto un secondo processo. L’inizio dell’altro procedimento è stato scelto nel 17 settembre prossimo presso un tribunale federale di Washington. Riguarderà la sua consulenza per il partito ucraino dell’ex presidente filo-russo Viktor Yanukovich e per l’oligarca ucraino Rinat Akhmetov, considerati fra i principali finanziatori del Partito delle regioni di Yanukovich.
LE RELAZIONI
Parte integrante dei processi sono, infatti, anche le relazioni dell’accusato, descritte in un lungo profilo di Franklin Foer sull’Atlantic. Manafort avrebbe lavorato anche assieme al miliardario russo Oleg Deripaska colpito direttamente, con le sue imprese, dalle ultime sanzioni americane (per un investimento immobiliare a Manhattan andata male e per l’acquisizione, mai avvenuta, di una rete di telefonia ucraina).
La figura di Manafort è considerata controversa. Ancor prima di lavorare per Trump, l’uomo ha offerto i suoi servizi come consulente nelle campagne presidenziali di politici repubblicani: Gerald Ford, Ronald Reagan, George Bush padre e Bob Dole. Mentre all’inizio degli anni 80 aveva fondato – assieme a Roger Stone, un altro protagonista del Russiagate – una società di lobbying a Washington.
LA DIFESA DI TRUMP (E DEL SUO ENTOURAGE)
Nel frattempo Trump non manca di mostrare tutto il suo disappunto per il proseguire dell’inchiesta, che più volte ha definito – scagliandosi contro i suoi avversari politici e lo stesso Mueller – “una caccia alle streghe”. Oggi, in concomitanza con l’inizio del processo a Manafort, il presidente americano è tornato a twittare sull’argomento. “La collusione non è un reato, ma non importa perché non c’è stata collusione (eccetto che per Hillary e i democratici corrotti)!”, ha scritto senza troppi giri di parole.
Sulle reti televisive americane, invece, imperversa in queste ore Rudolph Giuliani, scelto dal magnate repubblicano come proprio consigliere legale.
IL RUOLO DI COHEN
L’ex sindaco di New York difende a spada tratta la Casa Bianca e, nei giorni scorsi, in un’intervista alla Abc, aveva annunciato che Trump avrebbe “tagliato” i rapporti con il suo ex avvocato personale Michael Cohen. L’accusa è quella di aver violato il segreto professionale “sia in privato sia in pubblico”, ha spiegato Giuliani. Il riferimento è alle indiscrezioni secondo le quali Cohen avrebbe detto che Trump era consapevole di un incontro alla Trump Tower tra membri del suo staff (inclusi il figlio Donald Jr e il genero Jared Kushner) con alcuni esponenti russi. E, nonostante l’entourage del presidente continui a dire che si tratti di illazioni, è ben presente il timore – evidenziano i commentatori d’oltreoceano – che Cohen possa decidere di collaborare con Mueller e la sua inchiesta, aprendo nuovi fronti.