È tempo di parlare di Sergio Marchionne, anche perché la sua repentina scomparsa ha sorpreso un po’ tutti. Lo facciamo con Marco Ferrante, giornalista (è vicedirettore di La7) e scrittore, che gli dedica un libro a poco più di un mese dalla morte.
Un libro fatto di episodi, spunti e riflessioni che ci aiutano a capir meglio chi è stato e cosa lascia uno degli italiani più importanti del nostro tempo.
L’uscita di scena non annunciata, non prevista, di Sergio Marchionne ha lasciato tutti un po’ con l’amaro in bocca. Tu pensi che lui, nella sua ultima occasione pubblica con il Comandante Generale dei Carabinieri, fosse consapevole della situazione e che quelle parole rivolte a un pastore tedesco (dicendogli “riconosci il figlio di un carabiniere?”), fossero una sorta di addio?
No, io credo di no. Credo che lui pensasse di farcela. Sentiva molto questa storia del padre carabiniere però non penso che lui credesse che fosse il suo ultimo appuntamento pubblico. Penso che lui confidasse nel fatto che ce l’avrebbe fatta a sconfiggere la malattia.
Insomma abbiamo perso l’italiano più importante del mondo insieme a Mario Draghi perché così va la vita, non c’è nient’altro da dire sul tema?
Sì credo di sì. È stata una fatalità. D’altra parte lui era un difensore della privacy. Capisco che non ci siamo abituati, ma lui era fatto così. Come ho scritto alla conclusione del libro, la sua uscita di scena è stata tutto sommato in linea col personaggio.
Il gruppo Fca è il frutto di un lucido disegno di Sergio Marchionne. Questo progetto strategico è pronto al passaggio di consegne o viene colto di sorpresa dalla scomparsa del suo leader?
Il gruppo è pronto per il passaggio di consegne, anche perché l’anno venturo lui sarebbe comunque andato via. Tuttavia, restano aperte due questioni che avrebbe comunque lasciato al suo successore: innanzitutto definire meglio il futuro della parte “lusso” e dei brand italiani, quindi Alfa e Maserati. È un progetto da completare, visto che per il momento non ha dato i risultati sperati anche per l’andamento del mercato cinese e per una congiuntura sfavorevole dal punto di vista tecnico. Poi c’è il tema della concentrazione. Nel 2015, Marchionne aveva ragione nel dire che si va verso gruppi che puntano a produrre 10 milioni di auto l’anno, quindi anche a Fca serve un’alleanza.
Qual è a tuo giudizio la fondamentale differenza fra Marchionne e le tre altre figure chiave della storia del gruppo, ovvero Valletta, Gianni Agnelli e Romiti?
Le figure che hanno preceduto Marchionne non si sono trovate nella condizione di doverla salvare dalla fine imminente. Di certo senza Marchionne oggi non esisterebbe Fca. Ricordiamoci che all’epoca si era sull’orlo del commissariamento di Stato. Ci si chiedeva cosa sarebbe successo se la Fiat fosse fallita. Il valore in borsa era di sei miliardi, cioè un quarto di quello che vale ora Ferrari. Per capirci, un asset acquisibile da chiunque avesse voluto tentare un’Opa ostile. Ecco, Marchionne è l’unico che ha dovuto pensare un nuovo futuro del gruppo come alternativa alla sua scomparsa.
Quanto ha contato per Marchionne essere entrato in scena in un momento di “vuoto generazionale” della famiglia, tra Gianni, Umberto e il giovane John Elkann?
Il tema è molto importante. Marchionne è stato aiutato dal fatto che il suo azionista era una famiglia compatta, che solo l’anno prima del suo arrivo aveva fatto un aumento di capitale con soldi propri. In Italia c’è tutta una retorica che tende a diffidare degli Agnelli i quali, peraltro, si sono poco a poco “imborghesiti”, a parte Elkann gli altri sono meno ricchi e complessivamente meno famiglia reale rispetto ai tempi dell’avvocato. Però ciò che ha realizzato Marchionne è stato reso possibile dal fatto che la famiglia, in modo monolitico, si schierò in favore del mantenimento della proprietà dell’azienda. Dopo di che, la posizione di John Elkann era molto solida, ma è anche vero che lui era molto giovane. Proprio per questo non va trascurato, oltre al ruolo di Gabetti e Grande Stevens, quello di Luca di Montezemolo e quello di Susanna Agnelli, soprattutto in quel momento.
Un ruolo positivo quello di Montezemolo dunque. Anche se poi non sono mancati i dissensi.
Sì, Montezemolo fu il garante dell’unità dell’azionista e della neutralità del sistema politico-economico intorno allo sforzo di Marchionne e della famiglia. I due, almeno per una prima fase, sono stati assolutamente complementari. Non andavano d’accordo, non si amavano, però per alcuni anni Montezemolo ha coperto le spalle a Marchionne nella partita italiana.
Marchionne manager di sinistra, manager progressista, manager socialdemocratico, manager illuminato. Però poi Marchionne che litiga furiosamente per anni con la Cgil. Come stanno le cose?
Secondo me Marchionne era un signore molto pragmatico che veniva da una cultura liberale nordamericana. Credeva nel mercato, nell’internazionalizzazione, nella concorrenza, nella competizione. Però sapeva anche che nei sistemi complessi come quello dell’automobile è fondamentale l’aiuto degli Stati. Per cui se i polacchi gli danno qualcosa di utile lui lo valuta e lo stesso vale per la Serbia, cioè due Paesi nei quali Fca ha investito.
Marchionne ha sempre ragionato con grande libertà. Tornando all’Italia, quando nel 2007 lancia la 500 e poi fa quell’anticipo sul rinnovo di contratto, gli appiccicano l’etichetta del borghese buono, del manager socialdemocratico. In realtà, lui è sempre lo stesso, in tutte le cose che fa. Spesso stupiva i suoi interlocutori ricordando che il costo del lavoro per chi produce automobili, vale il 7% dei costi totali, quindi niente di particolarmente grande. Però si sorprendeva del fatto che gli operai e sindacati americani dicessero “Marchionne ci ha salvato”, mentre in Italia gli stessi soggetti lo attaccavano.
Quasi come a dire “voi non siete neanche in grado di riconoscere che senza il mio lavoro noi oggi non saremmo neanche qua a discutere”?
C’era una componente di questo tipo. Pensava che ci fosse troppa ideologia e che quelli della Fiom fossero stati abilissimi a scatenare un’offensiva mediatica su un contratto che non era diverso dagli altri. Un contratto che, a suo avviso, non conculcava diritti.
Il suo aspetto pragmatico è quello che gli ha permesso l’accordo con Obama ma che gli avrebbe permesso di fare la stessa cosa anche con Trump?
Sì assolutamente. Nel business globale il capo di un’impresa si pone il problema di trattare con le amministrazioni. Può avere più simpatia per uno o per l’altro ma se l’impresa ha bisogno di trattare con un socialdemocratico, un repubblicano, un populista, un demagogo non fa grande differenza. Su Trump la posizione di Marchionne è stata sempre lineare così come lo è stata sul commercio internazionale e sul ruolo dello Stato. Se gli Usa aiutano le Big Three anche gli europei devono provare ad aiutare le loro aziende. A suo avviso dopo la grande crisi del 2007/2008 gli Stati uniti avevano reagito in modo più efficace, più pronto e intelligente di quanto avesse fatto l’Europa.
Pensi che avrebbe continuato, magari da imprenditore, con la Ferrari?
Non certo come imprenditore. Era impossibile, considerato che la Ferrari vale una cifra troppo grande anche per lui, che pure non ha certo guadagnato poco. Da imprenditore non c’erano i presupposti dunque, ma avrebbe provato a rimanere alla guida operativa della Ferrari. È impossibile dire oggi se gli sarebbe riuscito di rimanere, ma certamente a lui sarebbe piaciuto.
Marco Ferrante, Marchionne. L’uomo impossibile, Mondadori, 2018, pp. 140, euro 18