Questo governo è più giallo che verde, nel senso di cinese. L’avanzata del Dragone in Italia preoccupa l’intelligence (anche all’estero, chiedere agli americani), ma nella stanza dei bottoni ora c’è chi vuole spalancare le porte alla Cina. È il caso di Michele Geraci, sottosegretario al Mise voluto dalla Lega ma amico anche dei grillini (scrive sul loro blog), siciliano doc di Palermo, ma con il cuore a Pechino, anzi a Shanghai, dove vive e insegna da quasi dieci anni in prestigiosi atenei. “Abbiamo fatto il primo passo, dimostrando di voler fare di più con la Cina, ma l’interesse è reciproco” dice al Formiche.net dalla biblioteca al Senato dove è andato a chiudere il seminario di Formiche sulla Salute Globale con Gsk e Europa Atlantica.
Geraci ha la fama in Italia come all’estero di “Mr China”. Difficile immaginare altri sottosegretari di Stato al Mise parlare mandarino e chiacchierare amabilmente con i vertici della Città Proibita. È una risorsa utile a questo governo che in vista della “manovra del popolo” ha bisogno come il pane di acquirenti stranieri del debito pubblico. Solo una settimana fa ha inaugurato la task force Cina del Mise. A che serve? “Lo scopo non è solo di aumentare l’inbound, ma anche l’outbound investment, consentire alle nostre aziende di investire in Cina anche in quelle attività che per ora ci sono precluse, come le acquisizioni di aziende cinesi”.
Agli 007 italiani però l’inbound cinese, soprattutto nelle infrastrutture critiche, non convince. Il Copasir, per dirne una, sentirà fra ottobre e novembre il vicepremier Luigi Di Maio per chiedere conto degli investimenti nel 5G di Huawei, il colosso hi-tech di Shenzen. “Aspettiamo i risultati, da ingegnere elettronico le posso dire che è difficile pensare oggi di vivere un mondo dove l’informazione è segregata, al di là dell’operatore e del Paese è un’illusione pensare di controllare la comunicazione” minimizza Geraci, “qualunque sistema può essere hackerato se c’è la necessaria dedizione a perderci tempo e a farlo”.
Sarà, ma intanto Stati Uniti e Australia hanno escluso i cinesi di Huawei e Zte dalla gestione della banda larga. A proposito di inbound, si è parlato di una partecipazione dei cinesi per rilanciare Alitalia, di che si tratta? “Non abbiamo ancora trovato un accordo, la partecipazione è limitata al 49%. Abbiamo lavorato nelle ultime 3-4 settimane a tutti i dossier per individuare i possibili partner interessati, stiamo aspettando un loro riscontro di interesse. È stata una settimana di festa nazionale, in questi giorni riverifichiamo quali sono le loro reazioni…”.
In Autostrade, invece, i cinesi già ci sono: il Silk Road Fund ha il 5% della controllante Atlantia. Hanno paura di una revoca della concessione? “Ci abbiamo parlato, non sono preoccupati in maniera così visiva, hanno fatto un investimento, io gli ho detto di non preoccuparsi delle regole, ma del ponte che è crollato”. Cioè? “Insomma, certe volte si fanno investimenti sbagliati. Avete investito in una società che ha questo tipo di risultati, l’evento è il crollo del ponte, quello che faremo noi ne è la diretta conseguenza…”.
E invece fare entrare Cdp per tenere in vita Alitalia è una buona idea? Il ministro Tria ha ricordato che è un ente privato, e deve seguire la logica del profitto. “Al di là di eventuali investimenti di Cdp, è chiaro che non stiamo cercando di salvare l’Alitalia per continuare lo stillicidio delle precedenti operazioni fallimentari, ma per rilanciarla”. Quali garanzie ci sono che l’investimento non sia a fondo perduto? “Se l’investitore cinese partecipa è perché vuole far soldi. A quel punto si risolve il dubbio se Cdp stia investendo in termini di mercato o meno, la presenza di un investitore che cerca profitto e di un programma industriale che rilancia l’azienda rientra nelle competenze di Cdp”.