Pechino starebbe usando i social network per reclutare spie occidentali, consapevoli o meno di esserlo. Sul tema, già affrontato negli Stati Uniti e nelle scorse settimane in Europa, in Francia, si sta sviluppando una nuova consapevolezza, con particolare attenzione alla piattaforma professionale per eccellenza: LinkedIn. Quest’ultima è quella che maggiormente incarna il concetto cinese di guanxi (connessione, network), oltre ad essere l’unico social network non vietato in Cina.
IL RUOLO DI LINKEDIN
Profili falsi, spesso con fotografie di bellissime donne, nasconderebbero agenti cinesi pronti a carpire i segreti, ma soprattutto ad avvicinare fisicamente i propri contatti. Ne ha parlato sull’American Interest Jonas Parello-Plesner, senior fellow all’Hudson Institute. In particolare, ha raccontato la sua esperienza con un contatto LinkedIn, una donna cinese che fingeva di rappresentare una società di recruiting, la Drhr. L’obiettivo di tale connessione era una ricerca sulle aziende cinesi, che nel momento dell’incontro faccia a faccia si è trasformato in un meeting con alcuni funzionari dell’intelligence. In sostanza il ricercatore ha subito una sorta di tentativo di reclutamento (principalmente a scopo di ottenere informazioni e know-how) che ha fatto appello sia all’importanza di evitare conflitti tra Stati Uniti e Cina sia al suo portafoglio (gli avevano offerto un sostanzioso finanziamento per la ricerca in cambio della collaborazione).
IL “RECRUITING” CINESE
Di recente il social network ha cancellato Drhr e altri profili legati alla Cina in seguito alla denuncia di tali attività da parte di agenzie di intelligence occidentali. Le implicazioni per la sicurezza nazionale americana e europea non sono poche: il caso dell’ex agente della Cia Kevin Mallory, caduto in una trappola delle spie cinesi proprio su LinkedIn, non è risultato finora un efficace deterrente per tutti gli uomini d’affari, studiosi e consulenti che collaborano con la Cina all’oscuro della pervasività dell’intelligence di Pechino. Da qui la necessità di agire.
LO SCENARIO
Oltreoceano stanno prendendo il problema di petto. Molte vicende recenti – tra le ultime quelle dei chip spia e delle possibili interferenze alle vicine elezioni di midterm, hanno spinto la Casa Bianca e il vice presidente Usa Mike Pence – a denunciare pubblicamente l’aggressività cinese. La contesa tra Cina e Stati Uniti non è solo economico-commerciale. Più in generale l’attivismo di Pechino nel cyber spazio – forse più che quello di Mosca – viene osservato con grande attenzione da Washington, che considera la Cina un forte competitor – anche di sicurezza – in campo tecnologico, come dimostrano le tensioni con i colossi Huawei e Zte ma anche le crescenti preoccupazioni sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Nelle circa trenta pagine del nuovo ‘Worldwide Threat Assessment of the US Intelligence Community’, documento di analisi strategica presentato a febbraio dinanzi al Comitato Intelligence del Senato da Dan Coats, direttore della National Intelligence (che racchiude 17 agenzie e organizzazioni del governo federale), si evince la preoccupazione per i piani di Pechino e di altri Paesi (compresa la Russia), che – a differenza di singoli gruppi – possono contare su organizzazione e ingenti risorse, utili a mettere in atto strategie diverse sempre più aggressive.
La Repubblica Popolare, secondo lo studio, continuerà ad utilizzare lo spionaggio informatico e a rafforzare le sue capacità di condurre attacchi cyber a sostegno delle priorità di sicurezza nazionale (anche se in misura minore rispetto a quanto avveniva prima degli accordi bilaterali siglati nel 2015). La maggior parte delle operazioni cibernetiche cinesi scoperte contro l’industria del Stati Uniti, si sottolinea, si concentrano su aziende della difesa, di IT e comunicazione.
Non è un caso che l’argomento sia anche oggetto di uno specifico report annuale del Pentagono al Congresso, che si concentra sui progressi e i pericoli delle operazioni informatiche di Pechino in ambito militare.