Siamo alla vigilia della conferenza di Palermo per la Libia. E mentre continuano a rincorrersi le voci sulle partecipazioni e sugli assenti eccellenti, (dopo la smentita delle scorse ore, potrebbe tornare ad esserci anche Khalifa Haftar) la macchina organizzativa procede costante. D’altra parte, però, i fronti e le idee contrapposte sulla riuscita effettiva dell’appuntamento siciliano del 12 e 13 novembre, delineano con molta chiarezza quella che resta ancora una situazione incerta.
Da un lato ci sono quelli che intravedono già il flop, a maggior ragione considerata la diatriba, ormai palese, con la Francia che, a quanto pare sarebbe pronta a non firmare il documento finale dell’incontro qualora non siano garantite le elezioni in tempi brevi (punto sul quale Macron si batte fin dalla conferenza del 29 maggio), attraverso una data certa. L’assenza dei grandi leader internazionali, poi, non farebbe che alimentare lo scetticismo dell’opinione pubblica sulla possibilità di un’effettiva concretizzazione dei propositi preannunciati dal governo italiano.
Dall’altro, comunque, la necessità di mantenere un atteggiamento propositivo, ricercando, sotto l’egida imprescindibile delle Nazioni Unite, una posizione condivisa tra gli attori regionali libici (che saranno in gran parte presenti), resta l’unica priorità concreta per la riuscita dell’evento. Il leader del governo internazionalmente riconosciuto Fayez al Sarraj, il presidente del Consiglio di Stato Khalid al Mishri e Aguila Saleh Issa, a capo del parlamento di Tobruk, si spera saranno tutti presenti. E proprio l’interazione tra i leader libici si conferma essere la condicio sine qua non per la posa della prima pietra della stabilizzazione libica.
Certo, è comprensibile rimanere con un po’ di amaro in bocca, soprattutto dato lo sforzo diplomatico del governo Conte che, in questo mesi, si è speso senza riserve nell’opera di convincimento dei leader internazionali. E che invece dovrà fare i conti senza gli eccellenti. Non ci saranno né Vladimir Putin né Serghei Lavorv, ma invece siederanno al tavolo delle trattative il premier Dimitri Medvedev e il vice ministro degli Esteri Mikhail Bogdanov. Gli Stati Uniti, che pure restano al fianco dell’Italia nella sua opera di mediazione, invece del segretario di Stato Mike Pompeo, invieranno il consigliere speciale del dipartimento di Stato per il Medioriente, David Satterfield. Non ci sarà, infine, neppure Angela Merkel, sostituita dal sottosegretario agli Esteri di Berlino, Niels Annen.
La salita è vertiginosa, e rimane alta anche l’incognita su quali saranno i rappresentanti di Misurata a partecipare, dopo che giusto giovedì scorso i leader della città cardine del potere militare dell’area si erano riuniti a Parigi sotto l’ala di Le Drian. Si alzano, dunque, le aspettative e i timori su come si evolveranno le discussioni attorno al tavolo della pace. Anche considerando l’imprevedibilità stessa degli attori regionali, sia di quelli che saranno presenti che degli esclusi. Le spaccature interne al Paese, d’altronde, sono tali da non dare certezze, e la frammentazione e le discordie tra le stesse tribù potrebbero rallentare il processo democratico.
In ogni caso le premesse restano positive, come lo sono i tre pilastri per la stabilizzazione espressi dall’inviato speciale dell’Onu Ghassan Salamè al Consiglio si Sicurezza. Tre punti principali che guideranno anche la conferenza per la Libia di Palermo: sicurezza, economia, processo politico nel Paese. Un piano, quello di Salamè che prevederebbe, in tempi rapidi, la convocazione di una grande assemblea sul suo libico, che riunisca tutte le tribù e le milizie, in modo da mettere in piedi un governo provvisorio in grado di trainare i Paese verso un processo elettorale quanto più possibile trasparente.
La volontà italiana, il motore che ha mosso l’iniziativa di Villa Igiea fin dalla sua progettazione iniziale, in fin dei conti, resta quello di gettare le basi per un dialogo significativo e costruttivo tra le parti in causa. La competizione che ha mosso le fila della discussione degli ultimi mesi resta, in questo momento sullo sfondo, consentendo, com’è giusto che sia, che il focus non si sposti dall’obiettivo: facilitare il processo democratico interno.