La peggiore privatizzazione della storia, Telecom Italia ora Tim, s’appresta a generare altri costi e rischi per il contribuente. Almeno a questo giro, dopo tanti errori, cerchiamo di evitare che l’Italia passi da base di una multinazionale delle telecomunicazioni a patetico mercato di consumatori impoveriti, nel mentre quello che fu l’operatore nazionale è al centro di altre scalate e ribaltoni.
Dopo l’iniziale idea di dare vita a una public company, subito dimostratasi priva di sostegno e visione, si è lestamente passati a scorrerie di soggetti che hanno indebitato e depredato la società. Una volta aperta la via alla violazione delle regole elementari, a cominciare dall’iniziale scalata dei “capitani coraggiosi”, rivelatisi avventurieri, non ci si è più fermati, impoverendo la società, gli azionisti non di controllo, il mercato e i consumatori. La ricchezza così estratta è andata altrove.
La rete di telecomunicazioni, infrastruttura essenziale per un Paese e un mercato competitivi, era all’avanguardia quando la (dis)avventura iniziò, oggi, dopo anni di mancati investimenti, è vecchia e necessita di costosi ammodernamenti.
Invece di esercitare il ruolo che spetta all’autorità che era concedente e che è divenuta autorizzante, i governi che si sono succeduti hanno lasciato la società in balia di chi la controllava, credendo così di rispettare le regole del mercato e dimostrando, all’opposto, di non conoscerle o non saperle praticare. Lo Stato ha sempre avuto la golden share, ovvero il diritto di opporsi non solo a cessioni non gradite, ma anche di richiamare il gestore ai doveri che l’autorizzazione porta con sé. S’è pensato di compensare facendo tornare lo Stato nelle telecomunicazioni. Prima con Enel che crea una nuova società, Wind, spendendo quasi la stessa cifra che lo Stato incassò vendendo Telecom. Come barattare un grattacielo con una friggitoria. Operazione fallita. Poi, più di recente, sotto la spinta di Matteo Renzi, riportando Enel a investire nelle telecomunicazioni, con Open Fiber. Considerato che l’azionista di controllo è pubblico e che è stata chiamata a investire anche Cassa depositi e prestiti (50% a testa), il contribuente paga e ripaga la speranza di avere una rete aggiornata, senza mai riceverla in cambio.
Cdp viene spinta a investire anche in Tim, acquistandone il 4.2%. Ora l’idea geniale: fondiamo le due reti in una sola società. Come dire: vendo il business e ricompro il fallimento. Il che comporta una serie di conseguenze negative. Intanto Cdp cambia la propria natura, divenendo holding di investimenti pubblici. Torna il capitalismo di Stato, ma senza le competenze e le regole dell’Iri. Ogni investimento può essere un’opportunità, ma è anche un rischio. Cosa capita se, come probabile, si perderanno dei soldi? Il flusso di cassa dei risparmi e pagamenti postali, che regge Cdp, serve a finanziare mutui a enti locali e deve essere amministrato con grande prudenza. Questi investimenti sono estranei alla missione e assai imprudenti.
Scorporare la rete Tim, oltre a riprendersi una roba che vale significativamente meno di quel che è iscritto nei libri di quella società, significa o pagarla troppo o togliere troppe garanzie rispetto ai debiti della società. Alcuni soci di Tim sono più che favorevoli perché puntano alla prima cosa e circa la seconda contano di fare a pezzi quel che rimane dell’operatore ed estrarre valore da ciascun segmento post macellazione. Posto che i loro interessi se li devono curare da soli, posto che dovrebbero esistere controllori del mercato, a tutela dei risparmiatori, posto che c’è ancora la golden share, quale sarebbe l’interesse collettivo, in una simile operazione? Rispondono: avere una moderna rete di telecomunicazioni. Quante volte si deve comprarla? E perché prenderne una resa vecchia dalle cattive gestioni private? Dovremmo risparmiarcelo, almeno a questo giro, invece l’entusiasta statalismo di governo viaggia verso un ulteriore premio al capitalismo peggiore. Allora fondiamola anche con Alitalia, almeno tutti avranno chiaro il concetto di: banda larga volante.