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La farmaceutica come esempio per la crescita industriale

Dal 2007 al 2017 la manifattura italiana ha perso il 18% del valore della produzione. Meglio è andata sui mercati esteri, con un export cresciuto nello stesso periodo del 23%. Performance significativa ma pari a poco più di un quinto di quella portata a casa negli stessi anni dall’industria farmaceutica (+107%). Che le ha consentito non solo di non perdere terreno, come è invece successo al resto della manifattura, ma di aumentare il valore della produzione del 24%. Oggi l’industria farmaceutica sfiora il 2% del prodotto interno lordo, senza considerare l’indotto, e rappresenta l’unico settore tecnologicamente avanzato nel quale l’Italia sia leader nell’Unione Europea. Perché va sottolineato che nel frattempo, dopo una lunga rincorsa, l’Italia, secondo Paese manifatturiero Ue, ha finalmente superato il primo, la Germania, salendo sul podio più alto della classifica continentale. Ecco cosa ne pensa Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la competitività.

Un primato che dovrebbe spronare l’intero settore industriale…

Un primato importante perché il settore farmaceutico è un caleidoscopio di tutte le principali caratteristiche che dovrebbe avere il resto del sistema produttivo italiano per eccellere a livello globale. Si tratta infatti di un comparto con una fortissima propensione all’export (il primo in Italia, dove circa l’80% della produzione valica i confini nazionali), capace di attrarre forti investimenti dall’estero (anche qui stiamo parlando del settore leader nel nostro Paese), centrato sulla ricerca e sviluppo (leader assoluto a livello mondiale e il terzo in Italia, con il 7% del totale), in grado di investire e valorizzare al meglio le risorse umane (90% degli addetti laureati o diplomati, con un incremento occupazionale del 4,5% negli ultimi due anni, contro l’1,3% della media manifatturiera, e il 55% dei neoassunti tra giovani under 35) e infine, last but not least, con una forte attenzione alle politiche di genere (il 42% degli addetti sono donne, contro il 29% dell’industria manifatturiera, così come il 40% dei dirigenti e quadri) e alle forme più innovative di welfare aziendale.

Naturalmente, questi risultati dipendono almeno in parte da margini più elevati della media. In base a un’analisi recentemente condotta dall’Istituto per la Competitività (I-Com) su un ampio campione di aziende italiane, se si considera il rapporto tra valore aggiunto e fatturato, una misura della capacità del processo produttivo di creare valore, si nota che esso è pari in media al 32% nel settore farmaceutico contro il 24% della manifattura nel suo complesso. In altre parole, le imprese farmaceutiche analizzate presentano un margine maggiore per poter retribuire i fattori di produzione interni. Ma, guardando a questo discorso alla rovescia, si può ricordare che è almeno da alcuni decenni, parlando dei limiti del capitalismo all’italiana, che si cerca di trovare una ricetta perché le nostre imprese si spostino verso un modello di produzione a più alto valore aggiunto. Proprio quello che sembra essere accaduto nel settore farmaceutico. Perché è vero che il 60% circa delle imprese del settore, ponderate per il proprio fatturato, sono a capitale estero ma quelle a capitale italiano non sono certo un residuo o in via di estinzione. Basti pensare che realizzano all’estero il 70% del proprio fatturato (che, per inciso, tra il 2007 e il 2017 è quasi raddoppiato).

Occorre continuare ad investire su ricerca e sviluppo?

Come già detto, alla base degli elevati margini del settore non c’è il caso o una rendita di posizione bensì soprattutto un’attenzione fortissima alla ricerca e sviluppo. Se si considerano i dati del campione analizzato da I-Com relativi al valore dei diritti di brevetto industriale, ne risulta che in media essi coprono oltre il 13% del totale delle immobilizzazioni immateriali, percentuale quasi doppia rispetto alla media del settore manifatturiero, che si ferma al 7%.  Inoltre, il valore dei diritti di brevetto industriale delle aziende farmaceutiche copre il 18% del valore dell’intero comparto manifatturiero, a testimonianza del fatto che il settore farmaceutico è un volano per il resto del sistema produttivo che altri settori dovrebbero seguirne l’esempio perché l’economia italiana possa proiettarsi con slancio verso il futuro.

Eppure sono numerose le incertezze che circondano l’industria farmaceutica e che dovrebbero preoccupare i nostri decisori…          

I brillanti risultati dell’ultimo decennio sono il combinato disposto di una forte tradizione italiana nel settore, un’ottima qualità delle risorse umane a costi tutto sommato contenuti in una prospettiva comparata con l’Europa e con gli altri principali Paesi produttori nonché strategie aziendali di lungo termine. Ma anche di una politica che, pur destinando meno risorse alla sanità e alla farmaceutica di quanto accada in altri Paesi, ha cercato di dare nell’ultimo decennio un quadro sufficientemente stabile al settore, senza grandi strappi e rinunciando ai tagli di prezzo, di fatto retroattivi e che in media più di una volta l’anno nello scorso decennio si abbattevano come una mannaia, senza preavviso e in maniera lineare, sulle aziende del settore. Nell’ultimo periodo, invece, l’Italia è diventata leader dei contratti di remunerazione dei farmaci tra lo Stato e le aziende basati sui risultati terapeutici. Ben il 36% di questi strumenti innovativi sul totale mondiale ha trovato applicazione in Italia attraverso i Registri sviluppati da AIFA. Grazie a questi accordi, le imprese del farmaco hanno restituito, in base a criteri noti ex ante, al Sistema Sanitario Nazionale circa 3,5 miliardi di euro tra il 2013 e il 2017, consentendo di concentrare le risorse laddove ci fosse reale innovazione.

Qual è la sida del settore farmaceutico?

Perché questa è la principale sfida di oggi in ambito sanitario: fare in modo che gli italiani abbiano accesso ai farmaci più innovativi, che consentano di allungare l’aspettativa ma soprattutto la qualità della vita. E, allo stesso tempo, attirando investimenti in produzione e in ricerca che permettano al nostro Paese di consolidare la propria leadership in Europa. Un doppio risvolto che tuttavia è messo in discussione da una governance sempre più inadeguata, che continua a gestire in silos separati la parte farmaceutica e quella sanitaria, pur essendo evidenti i legami e anche la parziale sostituibilità delle diverse componenti della spesa, specie nel comparto ospedaliero, e da una protezione dei diritti brevettuali che rischia di ridurre gli incentivi per le aziende a investire in Italia.

Solo se riusciremo ad affrontare queste sfide in un’ottica al contempo sanitaria e industriale si riuscirà a conservare e magari a sviluppare ulteriormente il made in Italy in ambito farmaceutico. Augurandoci nel frattempo che altri settori convergano verso lo stesso modello virtuoso, fatto di investimenti in produzione e ricerca, qualità e valorizzazione delle risorse umane e competitività sui mercati esteri.


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