Qualche giorno fa il presidente francese Macron ha annunciato una partnership di sei mesi con Facebook con l’obiettivo di trovare una soluzione al problema dello hate speech sui social network. È stato definito un esperimento senza precedenti, per la prima volta un governo ha la possibilità di conoscere i processi di Facebook e le policies per la rimozione di contenuti. Ciò indica un cambiamento della strategia del colosso tech che, dopo diversi tentativi per rimuovere contenuti offensivi anche con investimenti nell’intelligenza artificiale e nel machine learning, assume un ruolo sempre più rilevante affiancando i governi che vogliono creare una legislazione in materia. Per quanto riguarda la politica, non è il primo tentativo di introdurre delle norme per regolamentare il digitale. All’inizio del 2018 la Germania ha adottato una legge che prevede multe fino a 50 milioni di euro per i social media che non rimuovono i contenuti d’odio entro 24 ore. Soprattutto questa partnership riapre una delle più annose questioni: qual è il limite tra l’applicazione delle regole e la tutela della libertà di espressione?
“L’idea che il governo debba controllare un organo di informazione, anche sui generis come Facebook, pone diversi problemi”, afferma Giulio Vigevani, professore di Diritto costituzionale e di Diritto dell’informazione e della comunicazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. “In primo luogo dimostra una certa impotenza da parte dei governi, ma demandare a Facebook il controllo della rete implicherebbe un potere censorio infinito ed incontrollabile. Attraverso algoritmi ed automatismi, potrebbe bloccare i contenuti a propria discrezione con effetti devastanti sulla libertà di espressione. Il secondo aspetto scardina il principio di fondo che i governi non devono interferire ed incidere sulla libertà di informazione. Dare la possibilità ad autorità governative di entrare nei meccanismi di una società privata è pericoloso. Allora perché non può farlo anche Orban, Putin, Erdogan o Salvini? Se i governi democratici hanno questo atteggiamento, poi non si può essere censori con i regimi dittatoriali”.
Dello stesso avviso anche Rossella Rega, sociologa dei media e studiosa di comunicazione politica e autrice, con Rita Marchetti, della ricerca “Incivility, discorso pubblico e social media. Le Politiche 2018 e la comunicazione dei leader su Facebook”, in cui sono stati analizzati tutti i post pubblicati (1.788) sulle pagine Facebook dei sei principali leader candidati alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 (Berlusconi, Di Maio, Grasso, Meloni, Renzi, Salvini), durante le otto settimane che hanno preceduto il voto (dal 6 gennaio al 2 marzo 2018) e i relativi commenti (3.568.338): “Macron vuole mettere una barriera ai discorsi di odio e di intolleranza ma in realtà potrebbe diventare una vera e propria censura. Il problema è che il dibattito pubblico si è trasformato, è sempre più caratterizzato dall’attacco all’integrità degli avversari politici e dall’uso di un linguaggio offensivo. Forme di incivility promosse da parte degli attori politici (top-down) incitano il discorso incivile da parte del pubblico attivo online (bottom-up). Il dialogo diretto tra i cittadini e i politici si è trasformato in una perdita di occasioni dove i politici hanno una comunicazione autoreferenziale – vedi Trump, Salvini o Di Maio – voluta per portare avanti le proprie posizioni politiche o accrescere le paure degli italiani. Questo ha determinato un imbarbarimento tra le persone ed una involuzione del discorso pubblico compromettendo anche lo sviluppo dei processi di partecipazione democratica. Inoltre non ci si rende più conto del livello raggiunto a causa di politici che sono troppo incolti”.
In effetti i social network hanno completamente trasformato la comunicazione politica, come spiega Gianpietro Mazzoleni, presidente dell’Associazione italiana di Comunicazione Politica: “È una rivoluzione quasi copernicana, con i social l’interazione è diventata la cifra della comunicazione politica ed è cambiato il ruolo dei suoi attori: politici, giornalisti e cittadini. Molti politici utilizzano i social per comprendere in tempo reale l’umore del loro pubblico. Il fenomeno cruciale è stato Trump, soprannominato ‘The Tweeter in Chief’, che ha stabilito un rapporto diretto con i followers aggirando i media tradizionali. Non sono ancora chiare le conseguenze di questo nuovo modo di fare politica ma, per esempio, il Movimento 5 Stelle non sarebbe nato senza la rete e questo è già un fenomeno da studiare. I giornalisti ormai non sono più intermediari, si parla sempre più di disintermediazione, quindi avranno un nuovo ruolo quale quello della validazione diventando così garanti delle notizie. Per quanto riguarda i cittadini la questione si può riprendere citando una frase di Umberto Eco: ‘Si è dato il diritto di parola a tutti gli stupidi’, con il rischio di un abbassamento del dibattito pubblico ma in generale il bilancio è più positivo che negativo, sempre meglio la libertà della rete”.
“Il vero problema è che ormai c’è una assuefazione all’hate speech, sottolinea Tiziana Montalbano, social media manager e comunicazione di Parole O_Stili, progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza nelle parole che ha elaborato un Manifesto della comunicazione non ostile e promuove progetti nell’ambito della politica, della Pubblica Amministrazione, delle aziende e della scuola, “al contrario è aumentata l’attenzione alle fake news soprattutto su temi di politica, economia ed esteri mentre sono meno presenti in discussioni sulla salute, sport e tecnologia. La politica è sicuramente l’ambito in cui il linguaggio offensivo è stato sdoganato, poi c’è la scienza basti pensare a tutto il dibattito relativo ai vaccini. Un dato sorprendente è il fenomeno dell’hate speech tra colleghi di lavoro dove le donne sono più bersagliate rispetto agli uomini”. A confermarlo è anche una indagine di Swg su “Hate speech e Fake news nel lavoro e nel business” condotta tra cittadini, lavoratori e dirigenti. Il livello di allarme sull’hate speech si è abbassato passando dal 70 al 53% (-17% rispetto al 2017) mentre sulle fake news il calo è minore dal 65 al 59% (-6%). Per entrambi i fenomeni si evince una tendenza alla mancanza di consapevolezza, anzi due persone su tre pensano che sia ormai un nuovo modo di comunicare in rete con cui ci si dovrà misurare.
Invece il tentativo è proprio quello di ristabilire toni più moderati attraverso l’educazione dei cittadini e non con un intervento normativo. Secondo Rossella Rega “nella nostra epoca di digitalizzazione non è possibile proseguire con delle iniziative poliziesche ma possono esserci delle soluzioni coinvolgendo la società civile e proponendo una forma di educazione sul tipo di strumenti e su come utilizzarli e non una censura tout-court”. “La strada più difficile da percorrere è la consapevolezza dell’utente e l’educazione ai social come uno strumento meraviglioso di conoscenza”, ribadisce Tiziana Montalbano. “Le nostre attività sono volte a sensibilizzare su queste tematiche partendo da bambini di età compresa tra i 3 e i 7 anni che non sanno leggere ma usano internet. Anche gli adolescenti devono essere consapevoli della loro digital identity, sono nativi digitali ed usano i social in modo naturale senza pensare che il modo in cui si raccontano rappresenterà un bagaglio enorme di dati e di impronte digitali quando entreranno nel mondo del lavoro. È importante ricordare che il reale ed il virtuale non sono due realtà separate”.
Giulio Vigevani propone invece “un ritorno alla responsabilizzazione dei singoli individui attraverso l’abbandono dell’anonimato. In questo caso avrebbe un ruolo determinante anche il provider che, in caso di contenuti diffamatori o illeciti via internet, ha la possibilità di effettuare controlli più efficaci per individuare il soggetto che si nasconde dietro quei messaggi. Rafforzando gli elementi di identificabilità, è possibile agire nei confronti di quel soggetto per esempio attraverso una querela, altrimenti ne risponde direttamente Facebook o gli altri social media”. Gianpietro Mazzoleni avverte che “l’importante è iniziare a fare azioni concrete poiché stiamo andando verso un clima politico autoritario dove il leader è al centro e non c’è più un dibattito civile senza scontro. La tecnologia in sé non è né buona né cattiva ma non bisogna dimenticare che le parole producono effetti nella vita reale poiché le parole rimangono, colpiscono e uccidono”.