Se i conservatori facessero i conservatori ed i progressisti i progressisti, probabilmente la babele politica, culturale e concettuale nella quale siamo immersi non esisterebbe. E, chissà, forse vivremmo meglio almeno in rapporto alle idee. Nella marmellata ideologica che assumiamo acriticamente e proviamo a digerire, senza successo, ci troviamo di tutto per il semplice fatto che le culture di riferimento dei movimenti sociali e politici sono state cancellate. Le visioni del mondo sono state assorbite dalla visione unidimensionale del mercato che in sé non è una pessima cosa, lo diventa quando assume le fattezze di unico indice di valutazione della realtà e dei rapporti tra persone e Stati. E più o meno tutti nella deificazione del “mercatismo”, come ideologia totalizzante, ci si sono buttati a capofitto, indipendentemente dalle ascendenze culturali. I più convinti assertori di tale indirizzo sono coloro che “da sinistra vengono”, come si diceva una volta, avendo constatato che la matrice di fondo della loro azione politica s’è usurata e poi inabissata nelle profondità della storia. Tuttavia una certa coerenza la testimoniano: al materialismo storico hanno sostituito il materialismo pratico, il relativismo culturale, il determinismo dogmatico.
“Conservare”, rispetto a questa omologante e pervasiva tendenza, è di contro un atteggiamento naturale, perciò la sua declinazione culturale dovrebbe essere definita in maniera meno superficiale e volgare di quanto ordinariamente accade, cioè a dire come un insulto. Se soltanto si approfondisse la nozione di conservatorismo, tra le più nobili e feconde della storia politica degli ultimi due secoli, probabilmente non si farebbe di esso un’etichetta denigratoria. A tal fine basta leggere un testo agevole e perfino piacevole dall’esplicito titolo Essere conservatori (D’Ettoris editore) del filosofo, ma sarebbe meglio definirlo (sempre che lo si possa definire) poligrafo inglese Roger Scruton. Non si tratta di un autore sconosciuto, ma i politici conservatori britannici, contrariamente da quanto ci si sarebbe potuto attendere, hanno dimostrato di non avere particolare dimestichezza con le sue idee e con la cultura conservatrice in particolare, a riprova di quanto si diceva, e rischiano perciò di finire stritolati dalle contraddizioni che hanno innescato essendo venuti meno ai principi ispiratori che, almeno fino all’avvento di Cameron, li avevano caratterizzati. E non è sconosciuto neppure in Italia dove, da qualche anno, i suoi saggi vengono regolarmente tradotti e può annoverare una schiera di “fedeli” che lo segue nel suo itinerario conservatore allo scopo di formare una “scuola di pensiero” che in Europa, nonostante alcuni pregevoli tentativi tedeschi e francesi, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, non è stato possibile realizzare.
Luigi Iannone, studioso tra i più attenti del pensiero di Scruton, con questo agile volumetto contribuisce a dare sostanza alla comprensione del “cammino” filosofico-politico del pensatore inglese proprio nella prospettiva di accendere maggiormente l’interesse intorno alla sua opera che offre una interpretazione originale tra le macerie della Destra europea, del sovranismo declinato ad usum delphini , del populismo demagogico spacciato per rivolta “illiberale” e perfino nei riguardi della negazione dell’Europa secondo la vulgata di euroscettici tanto ignoranti quanto velleitari. Naturalmente – ed è meglio precisarlo subito – Scruton è uno dei sostenitori del superamento dell’Unione europea, ma anche un apologeta dello Stato-nazione a cui ha dedicato pagine intense in molte opere ed in particolare sintetizzate nel volumetto-intervista che anni fa realizzò con lui lo stesso Iannone.
Sarà che il suo conservatorismo controcorrente, derivante dal conservatorismo classico, ma arricchito da una visione proiettata nell’avvenire, avversato dall’establishment intellettuale, non gli ha permesso di trainare il conservatorismo britannico che avrebbe tanto bisogno di studiosi e pensatori del suo peso per uscire dalle secche nelle quali è finito, resta il fatto che le idee che propone accendono comunque la discussione e producono documenti di grande interesse come il recente “Manifesto per l’Europa”, redatto da Scruton insieme con alcuni intellettuali tra i più prestigiosi di orientamento conservatore, presentato lo scorso anno a Parigi e del quale sedicenti populisti e sovranisti disgraziatamente neppure si sono accorti.(…).
A settantaquattro anni (è nato in Gran Bretagna a Buslingthorpe il 27 febbraio 1944) ritirato, si fa per dire, nella sua fattoria, osserva, interviene, scrive e “provoca” tendendosi fedele ad un’idea della vita e della storia: la continuità non conflittuale della Tradizione nella modernità (che critica aspramente quando si pone come alternativa alla prima). Sulla rivista che dirige, The Salisbury Review, Scruton interviene con la stessa forza che aveva qualche decennio fa, quando s’impose all’attenzione ripensando il conservatorismo alla luce delle esperienze culturali contemporanee, rinvigorendo la lezione di Burke e soprattutto di T.S. Eliot, i suoi due più elevati ed amati maestri, contribuendo a rendere percepibile un movimento che si riteneva appiattito esclusivamente sulla nostalgia venata di influenze “mercatiste”. Il pensiero di Scruton oggi è parte integrante del dibattito politico-culturale britannico e, sia pure indirettamente, influenza il neo-conservatorismo che cerca una strada tra le polemiche inconcludenti nello schieramento Tory a seguito della Brexit. È, dunque, al mondo della cultura che si rivolge non disperando che quello politico sappia guardare oltre la palude partitica nella quale annaspa. (…).
Scruton è un cristiano che tuttavia non lancia crociate di tipo fideistico, ma affidandosi ad un freddo ragionamento politico elenca tutto ciò che non va nel vecchio Occidente per potersi difendere e proporsi ancora come motore di storia. Un’accusa che rivolge in particolare alle élites europee le quali pigramente indietreggiano, una casta che si riproduce per cooptazione e concede spazi al nemico interno ed esterno il quale tende a svilire la nostra identità fino a sottometterla.
In Essere conservatore, Scruton testimonia della sua capacità di rilanciare le tematiche conservatrici non come sterile sfida al conformismo imperante, ma soprattutto come un progetto costruttivo esistenziale e politico su cui rifondare l’Occidente attraverso un’ appassionata diagnosi culturale.
A tal fine Scruton passa in rassegna tutto ciò che non va nel vecchio Occidente per potersi difendere e proporsi ancora come motore di storia. Scrive: “Il conservatorismo che io professo afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle”. Quali sono? La Tradizione, la concezione organica della società, la ricostruzione di una comunità fondata su valori non negoziabili. Alle classi dirigenti Scruton si rivolge, sia pure indirettamente, esortandole alla difesa delle specificità e delle differenze contro l’indifferentismo ed il relativismo culturale. E ribadisce, inoltre, che lo Stato-nazione, dato per morto dagli universalisti, è la garanzia primaria dell’ordine civile, politico e culturale verso il quale tendere. Così come non si può prescindere dal restaurare la concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria. L’indole conservatrice, sostiene, “è una proprietà acquisita delle società umane ovunque si trovino”. Disperderla, come sta avvenendo, è un crimine contro noi stessi.
Non saprei dire quanti sono oggi coloro che, insieme ai valori politici tradizionali, frutto di una civiltà millenaria che si richiama all’esperienza europea latu sensu, hanno la consapevolezza della necessità di preservare la fedeltà allo Stato nazionale al fine di tutelare il governo democratico e costituzionale, oltre alla bellezza e agli usi ed ai costumi che costituiscono gli elementi di una identità comunitaria. Temo non molti. Da qui la preoccupazione di coloro che vedono nella crisi della coesione della comunità nazionale la premessa del disfacimento dei rapporti tra cittadini e istituzioni. Siamo, insomma, vittime dell’ideologia dell’indifferentismo culturale affermatasi a discapito delle specificità dei popoli ormai omologati dalla “religione” del pensiero unico che ha travolto anche la nazione come sostanza viva di aggregati umani eredi di tradizioni, storie, visioni dimoranti entro territori definiti e legati da relazioni regolamentate da un principio di legalità condiviso. Le conseguenze le ravvisiamo nel potere delle organizzazioni internazionali che costituiscono, nel loro insieme, il cosiddetto “governo mondiale” fondato sulla delega di consistenti quote di sovranità ad una anonima burocrazia.
Il tracollo degli Stati nazionali, almeno in Europa, è risultato evidente negli ultimi anni quando le istituzioni comunitarie hanno inteso affrontare la crisi delegittimando ulteriormente i governi nazionali piegati alle logiche tecnocratiche di Bruxelles e di Francoforte. E si è cominciata a fare strada la considerazione che la fedeltà alla propria comunità è certamente prioritaria rispetto a quella di chi agisce in assenza di un vincolo nazionale. Che ciò porti alla scoperta di un neo-patriottismo è ovviamente prematuro per sostenerlo ancorché auspicabile. Ed in questo spirito va letto il volume di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere), contributo rilevantissimo alla riscoperta dell’idea di nazione in chiave democratica e come elemento fondante il governo del popolo costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso territorio e nutrono un attaccamento al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico-religiosi che contribuiscono la falsare la nozione stessa di nazionalità esaltando piuttosto il tribalismo e l’intolleranza.
Perciò le istituzioni sovranazionali che abusano del potere di delega, secondo Scruton minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli e allo Stato nazionale, che pure ha bisogno di essere migliorato nelle sue strutture, e, dunque, per lui non v’è alternativa a meno di non voler diventare genti prive di autonomia e spodestate delle prerogative storico-territoriali che ne hanno legittimato l’esistenza. A cominciare dal principio di cittadinanza, “dono principale delle giurisdizioni nazionali”, scaturita dalla relazione tra lo Stato e l’individuo, sulla base del riconoscimento che il secondo mostra nei confronti delle leggi emanate dal primo. E’ questo il fondamento di un costituzionalismo repubblicano, includente e condizionante allo stesso tempo, che s’ispira alla logica della responsabilità dichiarata dal “noi” e, dunque, ostile all’ “io” come imperativo egoistico. Lo Stato nazionale europeo – osserva Scruton – emerse quando l’idea di comunità definita partendo da un territorio venne iscritta in sistema di sovranità e di leggi. Dunque, “è vitale al senso di nazione l’idea di un territorio comune nel quale ci siamo tutti insediati e che tutti abbiamo identificato come la nostra casa”. Per questo motivo “la fedeltà nazionale è fondata sull’amore per un luogo, per le usanze e le tradizioni che sono state iscritte nel paesaggio e nel desiderio di proteggere quelle cose belle attraverso leggi comuni e una comune fedeltà”.
Insomma, la suggestiva difesa della nazione da parte di Scruton, è una lezione di sano realismo in tempi in cui l’avversione dello Stato nazionale e, più in generale, il rifiuto della stessa idea nazionale sono largamente diffusi e riflettono uno stato d’animo che Scruton definisce “oicofobia” cioè la tendenza che in qualsivoglia tipo di conflitto si denigrano usi, costumi, istituzioni , cultura “nostri” ripudiando così la lealtà o la fedeltà nazionale, prendendo sempre e comunque le parti di organismi transnazionali supportandone le direttive, come capita, per esempio, quando si sostengono sempre e comunque le decisioni dell’Unione europea o delle Nazioni Unite. (…).
In questo prezioso ed essenziale saggio, primo profilo organico apparso in Italia su Scruton, Luigi Iannone scrive: “Per Scruton, una comunità che voglia definirsi tale, ha l’obbligo di coltivare ‘il senso comune’ che è sempre legato ad un’appartenenza che scaturisce ‘dalla cultura, dalla nazione e da Dio’. Saremmo tentati di portare a supporto numerose tesi, che pure fa risaltare lungo tutto la sua corposa produzione saggistica, ma egli invece parte da quella meno ordinaria; vale a dire dalla strenua difesa dell’identità, ma non con le forme retrive che la storia del Novecento ci ha consegnato (dittature e totalitarismi), e perciò non serrandosi nelle strettoie poco praticabili di un nazionalismo contiguo al revanchismo. Al contrario, per Scruton, l’identità va difesa, tutelando e regolando di continuo i processi democratici. Modulando valori antichi con la realtà fattuale e mitigando tutto col ‘buon senso conservatore’”.