Ogni soccorritore sa che gli interventi per recuperare una vita non finiscono sempre bene come capita puntualmente nei film d’azione. Ed è addestrato ad agire tenendo sotto controllo le proprie emozioni anche quando la propria esperienza – e a volte anche la logica – gli dicono che non c’è più niente da fare.
A volte va bene, come è successo nell’intervento impossibile alla Riesending Schachthöhle quando lo sforzo congiunto di cinque servizi nazionali di soccorso guidati dal Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico italiano, ha permesso, dopo 11 giorni, di estrarre vivo uno speleologo tedesco che aveva subito un grave trauma cranico a 1000 metri di profondità.
A volte no, come è successo a Malaga. Sulla vicenda dei giorni scorsi è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Vediamo ora di fare un poco di chiarezza, se non altro per rispetto alla memoria della piccola vittima e alla dedizione dei tanti soccorritori.
Alle 13:57 di domenica 13 gennaio 2019 il servizio di emergenza 112 di Malaga riceve una chiamata da una donna. Racconta che un bimbo è caduto in un pozzo del diametro di 40 cm. La donna e il suo compagno stavano passeggiando nei boschi quando hanno sentito delle urla da una fattoria presso Totálan, un paesino vicino a Malaga. Accorrono e trovano nel panico e completamente incapaci di reagire i due proprietari del fondo e un’altra coppia di loro parenti: i genitori del piccolo Julen Roselló.
La chiamata viene passata a Julián Moreno, direttore tecnico del servizio di soccorso locale, mentre la prima squadra di pompieri immediatamente inviata da Rincón de la Victoria raggiunge il posto. Fra le grida capiscono che un bimbo deve essere caduto nel buco indicato dai parenti.
In mezz’ora sul posto si trovano il Gruppo di Soccorso in Alta Montagna (GREIM), la Protezione Civile, gli specialisti della Guardia Civil, e il Gruppo Specialisti di Attività Subacquee (GEAS). Studiano il buco e stabiliscono che l’allarme deve essere sbagliato: il foro non è largo 40 cm ma solo 25. I tecnici della Brigata di Soccorso dei Minatori delle Asturie sono addestrati a procedere dentro cavità di 50 cm di diametro, ma 25 cm sono impossibili da superare.
Ma Victoria García e José Roselló, i genitori di Julen, continuano a sostenere che loro figlio è lì dentro: si scopre che ha due anni e pesa circa 11 kg.
Alle 14:30 viene trovata una ditta specializzata nelle ispezioni delle condotte e alle 16:00 una telecamera robotizzata per l’ispezioni di tubi orizzontali viene privata delle ruote e del meccanismo di avanzamento, appesa a un verricello e calata nel pozzo. La telecamera tocca una ostruzione a -70 m. Ma non è Julen: sono detriti di roccia e zolle di terra staccatisi dalle pareti.
Con una specie di cucchiaio cercano di agganciare e ripescare i detriti per vedere di liberare il passaggio, ma l’operazione risulta già disperata: se il piccolo è sopravvissuto alla caduta e i suoi polmoni non sono stati schiacciati dalle pareti laterali, i detriti che lo ricoprono non possono permettergli di respirare più.
Intanto in superficie si scatena una baraonda. Fra i mille che offrono aiuto disorganizzato intralciando la macchina dei soccorsi, si fa avanti la compagnia SG da Cadice. Hanno un camion su cui è montata una pompa in grado di aspirare la sabbia. Il camion arriva il giorno dopo, ma è troppo grosso per raggiungere la fattoria lungo l’angusto sentiero in forte salita che la collega alla strada principale. Occorrono due ore ai bulldozer per liberare un passaggio senza tanti complimenti e permettere al camion di arrampicarsi fino al luogo dell’incidente. La sua pompa riesce a togliere uno strato di detriti di una trentina di centimetri, ma nel frattempo appare chiaro che quella non può essere la soluzione.
La squadra di soccorso decide di scavare due tunnel, uno verticale e uno suborizzontale, per tentare di raggiungere il bambino. Nel frattempo, la pompa recupera il primo indizio che Julen – contro qualsiasi logica – si trova proprio lì: riporta in superficie uno zainetto giocattolo dove il piccolo tiene le sue caramelle ed una tazzina.
Martedì mattina il ministro della Difesa Margarita Robles mobilita la Brigata di Soccorso dei Minatori delle Asturie e manda a prendere otto tecnici con un aereo militare.
Nel solito caos mediatico che ruota attorno a ogni intervento, chiacchieroni privi di scrupoli ed esperti più o meno improvvisati si affannano a dire la loro. Il diametro del tubo varia di ordini di grandezza nelle parole di chi non lo ha visto e cresce il dubbio che il piccolo non si trovi per niente in fondo al pozzo.
Martedì, finalmente, María Gámez, delegato del governo centrale in Málaga ed il colonnello Juan Esteban della Guardia Civil annunciano alla stampa che il Dna rinvenuto in alcuni capelli recuperati dalla pompa aspirante sono effettivamente di Julen. È la prima prova fisica perché, nonostante voci contrarie, nessun sensore calato nel pozzo ha mai captato la voce, o anche solo il respiro, di Julen.
Mercoledì José Antonio Berrocal, presidente della Federazione Speleologica Andalusa, dichiara ai giornalisti che conosce casi in cui una persona è sopravvissuta anche per dieci giorni in situazioni simili rimanendo addormentata in uno stato di semi-incoscienza resistendo, così, alla carenza di ossigeno. Il pediatra Iván Carabaño, dell’Ospedale di Madrid “12 Ottobre”, offre qualche speranza ricordando che la bassa temperatura può aiutare la sopravvivenza del bambino riducendone ulteriormente il metabolismo e preservando i tessuti lesionati dalla caduta.
I 700 abitanti della cittadina, nel frattempo, mettono a disposizione le proprie case ai 300 soccorritori accorsi, ma migliaia di reporter e di curiosi rendono sempre più complessa la gestione dell’intervento. Il pozzo orizzontale viene presto abbandonato e tutti i tentativi si concentrano sullo scavo del pozzo verticale nella dura roccia andalusa. I primi 10 metri di spessore vengono semplicemente rimossi coi bulldozer e sul fondo viene posizionata la trivella vera e propria. Questa, alla velocità di 1,1 metri all’ora, si inoltra nelle rocce accanto al pozzo dove si trova Julen.
Quando finalmente la trivella tocca quota -61 metri, si cerca di calare l’incamiciatura in tubi di ferro saldati che dovrebbe sorreggere le pareti del pozzo. Ma questa non entra a causa di sporgenze e di dislocazioni di rocce che bloccano il passaggio. Per quattro giorni si procede, quindi, con le operazioni di alesaggio delle pareti del nuovo pozzo finché giovedì – dieci giorni dopo la caduta – si riesce a calare l’incamiciatura ed a mettere in sicurezza il secondo pozzo.
A questo punto, viene calata una specie di slitta-ascensore che porta a turno uno o due degli otto minatori esperti sul fondo. Questi si alternano nello scavare a mano il passaggio laterale che deve sbucare nel pozzo di Julen. L’ascensore serve per evacuare il materiale di scavo.
In questa fase si decide di usare l’esplosivo – nonostante il rischio che le vibrazioni compromettano ancora di più la posizione di Julen. Sono necessarie quattro volate, utilizzando microcariche cilindriche del diametro di circa un cm infilate in lunghi fori scavati col trapano nella roccia.
Per ogni volata è necessario evacuare il pozzo di soccorso e soffiarvi dentro aria per un tempo sufficiente per liberare il foro dai gas prodotti dall’esplosione prima di poter verificare la qualità dell’aria e autorizzare i tecnici a rientrare.
Dopo 13 giorni di intervento, sabato 26 gennaio alle ore 0125, Julen viene rinvenuto morto a 110 metri di profondità, probabilmente scivolato fin laggiù a causa delle vibrazioni. È quasi certo che sia deceduto in seguito alla caduta e che la sua agonia non sia durata che qualche secondo.
È la notizia che il cervello di ogni soccorritore aspettava, ma che il cuore di ciascuno di loro rifiutava di accettare. Nella memoria di Julen e nell’intensità del lavoro di squadra che li ha uniti in questi 13 disperati giorni, troveranno la forza per affrontare la prossima emergenza.